contributi
La mancata crescita taglierà anche le pensioni future
11 Luglio 2014 15:15
si parla di pensioni pubbliche in Italia, si dice che quelle delle future generazioni saranno più basse di quelle attuali per tutta una serie di ragioni. In primis, con l’ultima riforma varata dal Governo Monti, si è provveduto al passaggio integrale per i neo assunti al sistema contributivo.
In pratica i trattamenti pensionistici che l’INPS erogherà all’età pensionabile dei neo assunti sarà esclusivamente calcolata in base ai contributi versati dal lavoratore durante tutta la sua vita lavorativa.
Chi è andato in pensione negli anni scorsi ha invece beneficiato del sistema pensionistico retributivo, percepisce cioè un assegno in percentuale alla media delle retribuzioni dei suoi ultimi 10 anni: se, per esempio, fosse andato in pensione con 35 anni di contributi e con una media annua retributiva di 20mila euro, percepirebbe 14 mila euro, cioè il 70% di quanto ha guadagnato prima di andare in pensione (ovvero 35 anni per il 2%, e il risultato moltiplicato 20 mila).
C’è però un altro aspetto, meno conosciuto ai lavoratori, che potrebbe comportare un ulteriore taglio alla pensione statale: la crescita del PIL nazionale. Infatti il criterio di calcolo delle future pensioni è basato sui contributi versati e sulla loro rivalutazione calcolata in base ala crescita media quinquennale del PIL dell’Italia.
È stato stimato che in media un punto percentuale di PIL corrisponde a un tasso di sostituzione (cioè la percentuale che si applica all’ultima retribuzione per determinare l’assegno di pensione INPS) di 10 punti percentuali con punte che però possono arrivare a sfiorare il doppio per i redditi più bassi e ridursi a poco più della metà di tale percentuale per quelli che percepiscono stipendi più elevati.
Un esempio può aiutare meglio a comprendere l’entità dell’impatto del PIL sul trattamento pensionistico futuro. Immaginiamo un 45enne che ha già versato 20 anni di contributi e che andrà in pensione a 68 anni percependo, come ultima sua retribuzione annua 30 mila euro: se il PIL crescerà in media dell’1% la sua pensione annua ammonterebbe a 19.700 euro (pari ad un tasso di sostituzione del 65,6%), nel caso di un PIL medio del 2% percepirebbe un assegno INPS di 24.100 euro (80,3% dell’ultima retribuzione) mentre nel caso di PIL pari a zero non supererebbe una pensione pubblica di 16.300 (54,3%).
Occorre sottolineare che l’aumento dell’età pensionabile e la riduzione dell’importo delle pensioni pubbliche porta l’Italia in linea con i più virtuosi paesi occidentali in termini di sostenibilità della spesa pensionistica di medio lungo termine; certo tutti gli italiani vorrebbero pensioni più generose e, magari, riconosciute, come ai nostri padri e nonni, a 55-60 anni ma poi è necessario che ci siano le risorse negli anni per coprire i pagamenti.
Da un lato però abbiamo che il numero di lavoratori diminuisce e, quindi, anche i contributi che complessivamente vengono versati all’INPS che, di conseguenza, ha meno risorse anno per anno da dover ridistribuire.
Poi c’è l’allungamento delle aspettative di vita media di uomini e donne: un fattore positivo per tutti noi che viviamo di più ma che significa per l’INPS dover erogare assegni di pensione per un periodo di tempo più lungo che in passato per ogni pensionato.
Cosa fare? I lavoratori possono pensare a una pensione integrativa che consenta loro di arrotondare in modo adeguato la pensione pubblica.
Avendo ben presente che prima iniziano a versare i contributi integrativi e più potranno accantonare a parità di somma mensile versata: per esempio un 25enne che entra oggi nel mondo del lavoro con una retribuzione lorda annua di 20 mila euro e aderisce a un fondo pensione versando il 2% della retribuzione annua (400 euro), a cui si aggiunge un altro 2% da parte del datore di lavoro e il Tfr (il 6,91% di 20 mila euro pari a 1.382 euro annui), percepirebbe una pensione integrativa a 67 anni di 6.490 euro lordi mentre iniziando i versamenti 10 anni dopo avrebbe diritto a 4.100 euro lordi annui e 20anni dopo non più di 2.700 euro lordi annui.
In pratica i trattamenti pensionistici che l’INPS erogherà all’età pensionabile dei neo assunti sarà esclusivamente calcolata in base ai contributi versati dal lavoratore durante tutta la sua vita lavorativa.
Chi è andato in pensione negli anni scorsi ha invece beneficiato del sistema pensionistico retributivo, percepisce cioè un assegno in percentuale alla media delle retribuzioni dei suoi ultimi 10 anni: se, per esempio, fosse andato in pensione con 35 anni di contributi e con una media annua retributiva di 20mila euro, percepirebbe 14 mila euro, cioè il 70% di quanto ha guadagnato prima di andare in pensione (ovvero 35 anni per il 2%, e il risultato moltiplicato 20 mila).
C’è però un altro aspetto, meno conosciuto ai lavoratori, che potrebbe comportare un ulteriore taglio alla pensione statale: la crescita del PIL nazionale. Infatti il criterio di calcolo delle future pensioni è basato sui contributi versati e sulla loro rivalutazione calcolata in base ala crescita media quinquennale del PIL dell’Italia.
È stato stimato che in media un punto percentuale di PIL corrisponde a un tasso di sostituzione (cioè la percentuale che si applica all’ultima retribuzione per determinare l’assegno di pensione INPS) di 10 punti percentuali con punte che però possono arrivare a sfiorare il doppio per i redditi più bassi e ridursi a poco più della metà di tale percentuale per quelli che percepiscono stipendi più elevati.
Un esempio può aiutare meglio a comprendere l’entità dell’impatto del PIL sul trattamento pensionistico futuro. Immaginiamo un 45enne che ha già versato 20 anni di contributi e che andrà in pensione a 68 anni percependo, come ultima sua retribuzione annua 30 mila euro: se il PIL crescerà in media dell’1% la sua pensione annua ammonterebbe a 19.700 euro (pari ad un tasso di sostituzione del 65,6%), nel caso di un PIL medio del 2% percepirebbe un assegno INPS di 24.100 euro (80,3% dell’ultima retribuzione) mentre nel caso di PIL pari a zero non supererebbe una pensione pubblica di 16.300 (54,3%).
Occorre sottolineare che l’aumento dell’età pensionabile e la riduzione dell’importo delle pensioni pubbliche porta l’Italia in linea con i più virtuosi paesi occidentali in termini di sostenibilità della spesa pensionistica di medio lungo termine; certo tutti gli italiani vorrebbero pensioni più generose e, magari, riconosciute, come ai nostri padri e nonni, a 55-60 anni ma poi è necessario che ci siano le risorse negli anni per coprire i pagamenti.
Da un lato però abbiamo che il numero di lavoratori diminuisce e, quindi, anche i contributi che complessivamente vengono versati all’INPS che, di conseguenza, ha meno risorse anno per anno da dover ridistribuire.
Poi c’è l’allungamento delle aspettative di vita media di uomini e donne: un fattore positivo per tutti noi che viviamo di più ma che significa per l’INPS dover erogare assegni di pensione per un periodo di tempo più lungo che in passato per ogni pensionato.
Cosa fare? I lavoratori possono pensare a una pensione integrativa che consenta loro di arrotondare in modo adeguato la pensione pubblica.
Avendo ben presente che prima iniziano a versare i contributi integrativi e più potranno accantonare a parità di somma mensile versata: per esempio un 25enne che entra oggi nel mondo del lavoro con una retribuzione lorda annua di 20 mila euro e aderisce a un fondo pensione versando il 2% della retribuzione annua (400 euro), a cui si aggiunge un altro 2% da parte del datore di lavoro e il Tfr (il 6,91% di 20 mila euro pari a 1.382 euro annui), percepirebbe una pensione integrativa a 67 anni di 6.490 euro lordi mentre iniziando i versamenti 10 anni dopo avrebbe diritto a 4.100 euro lordi annui e 20anni dopo non più di 2.700 euro lordi annui.
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