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International Editor’s Picks - 11 agosto 2014

11 Agosto 2014 09:10

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o psicodramma dell’Italia tornata in recessione (chissà perchè “tecnica”, come il default argentino) su MarketWatch troviamo una notizia buona e una cattiva. Cominciamo da quella buona. Il PIL, prodotto interno lordo, quello che misura la ricchezza prodotta da un paese e che ha segnato per il secondo trimestre consecutivo il segno meno in Italia, non va più di moda. Non indica con precisione se un’economia avanza o arretra, perché non tiene conto delle dinamiche demografiche. In altre parole non bisogna guardare la torta, ma le fette corrispondenti a ciascun abitante. Vale a dire il PIL pro-capite. MarketWatch fa il caso del Giappone, misurato con il PIL è il paese che ha fatto peggio nel ventennio 1991-2011 nel G7, ma misurato con il PIL pro-capite sale di diversi gradini fino a un decente 0,9% di crescita media annua. E qui arriva la cattiva notizia, se misuriamo la salute delle economie con il PIL pro-capite il posto del Giappone come fanalino di coda del G7 lo guadagna l’Italia, con un misero 0,6% nello stesso periodo.

Si chiamano Millennials, sono nati tra il 1983 e il 2002 e sono la generazione che detterà la direzione dei consumi, e quindi dell’intera economia, nei decenni a venire. Almeno in America. Per questo sono studiati con grande attenzione. Forbes si occupa di smontare molti luoghi comuni sui Millennials: hipsters concentrati nelle zone centrali di New York, San Francisco, Boston e Chicago, non si muovono più in macchina, mangiano street food non OGM e sono “verdi”. I numeri raccontano un’altra storia, scrive Forbes. L’auto la usano, eccome, per spostarsi da un estremo all’altro della “sun belt”, da Miami in Florida a San Bernardino in California passando per New Orleans, Dallas e San Antonio, la città in testa alla classifica delle “Millennial Boomtowns”. Molti vivono con i genitori, anche se hanno un livello di istruzione superiore, non sempre per necessità economica. Molti sono di origine ispanica, il 20% del totale, e molti sono poco interessati alla politica. Riuscire a portarli a votare è una delle grandi sfide delle presidenziali del 2016.

Quando si dice startup il pensiero va subito alla new economy, al boom di internet di fine millennio e al nuovo boom in corso della sharing economy e di Internet of things. Insomma, un fenomeno nuovo, legato alla rivoluzione tecnologica. Non è così, lo spiega Yahoo Finance citando un report di Brookings Institution. Oggi in America nasce la metà di startup rispetto al 1978. Le startup sono state il motore della formidabile crescita economica americana negli anni Cinquanta e Sessanta, oggi molto di meno. E il fatto preoccupa. Perchè le nuove imprese sono il vero motore della crescita e soprattutto della creazione di posti di lavoro. Invece la corporate america diventa sempre più vecchia e più grassa. Un’economia che tende più al consolidamento che alla crescita. Chi è dentro è dentro e spodestarlo diventa sempre più difficile.

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