Amundi
Come investire adesso nei mercati emergenti
25 Maggio 2016 09:05
articolo “Mercati emergenti, un nuovo interessante tema d’investimento”, Philippe Ithurbide, Global Head of Research, Strategy and Analysis Research di Amundi, ha spiegato perchè i mercati azionari e obbligazionari dei Paesi emergenti presentano valutazioni attraenti e dovrebbero riprendersi nel 2016. In questo articolo, si entra nel dettaglio di come investire in un classe di attivi così eterogenea.
"Il termine mercati emergenti è infatti fuorviante perché tende a raggruppare Paesi che hanno caratteristiche e realtà economiche molto diverse. Inoltre, non prende atto degli straordinari progressi compiuti: infatti alcuni di essi sono ormai meglio posizionati dei cosiddetti Paesi «sviluppati»” puntualizza Philippe Ithurbide, secondo il quale, sebbene sia sempre più necessaria un’analisi del valore relativo, al di fuori del benchmark, per soppesare in modo più appropriato le caratteristiche dei vari Paesi, l’investimento nei mercati emergenti vede sovrapporsi ancora diversi metodi tradizionali, da quello che adotta un approccio per blocchi o indici a quello orientato ad un approccio per regioni, fino al metodo che privilegia un approccio per indici e sottoindici e che adotti il concetto di indici specifici come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), i Next11 (Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Coread del Sud e Vietnam), o i cosiddetti Paesi di «Nuova frontiera» (Argentina, Bahrein, Bangladesh, Bulgaria, Croazia, Estonia, Giordania, Kazakistan, Kenya, Kuwait, Libano, Lituania, Mauritius, Nigeria, Oman, Pakistan, Qatar, Romania, Serbia, Slovenia, Sri Lanka, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Ucraina, Vietnam).
Tuttavia sono indici non omogenei e senza altra logica se non il loro grado di sviluppo economico e finanziario: sebbene a volte siano fortemente diversificati, questi indici non consentono un’ottimizzazione dei temi d’investimento. “L’approccio di Amundi è basato invece su una classificazione di tipo «factor-investing». Abbiamo condotto diversi studi per classificare i Paesi emergenti, ma due, in particolare (pubblicati nel 2012 e nel 2014), meritano la nostra attenzione” rivela Philippe Ithurbide che poi spiega: “Il primo principio fondamentale è uno scoring che permette di classificare i Paesi analizzati in base a diversi criteri (crescita, inflazione/deflazione, vulnerabilità finanziaria ecc.) mentre il secondo è un’analisi statistica basata sulla prossimità economica che consente poi di riunire i Paesi in gruppi omogenei con fattori in comune”.
Si tratta di un approccio originale perché supera la logica del benchmark, della zona e della regione. “Dal 2014, per quanto riguarda il nostro approccio relative value (basato cioè sul valore relativo di un investimento rispetto ad un altro), consigliamo di investire nei Paesi che hanno una crescita autonoma, nei Paesi consumatori di materie Prime, nei Paesi con una bassa vulnerabilità esterna e, se possibile, nei Paesi con una divisa sottovalutata. In questa fase ha senso monitorare da vicino i Paesi produttori di materie prime, finora penalizzati e con una divisa fortemente sottovalutata” conclude lo strategist.
"Il termine mercati emergenti è infatti fuorviante perché tende a raggruppare Paesi che hanno caratteristiche e realtà economiche molto diverse. Inoltre, non prende atto degli straordinari progressi compiuti: infatti alcuni di essi sono ormai meglio posizionati dei cosiddetti Paesi «sviluppati»” puntualizza Philippe Ithurbide, secondo il quale, sebbene sia sempre più necessaria un’analisi del valore relativo, al di fuori del benchmark, per soppesare in modo più appropriato le caratteristiche dei vari Paesi, l’investimento nei mercati emergenti vede sovrapporsi ancora diversi metodi tradizionali, da quello che adotta un approccio per blocchi o indici a quello orientato ad un approccio per regioni, fino al metodo che privilegia un approccio per indici e sottoindici e che adotti il concetto di indici specifici come i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), i Next11 (Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Turchia, Coread del Sud e Vietnam), o i cosiddetti Paesi di «Nuova frontiera» (Argentina, Bahrein, Bangladesh, Bulgaria, Croazia, Estonia, Giordania, Kazakistan, Kenya, Kuwait, Libano, Lituania, Mauritius, Nigeria, Oman, Pakistan, Qatar, Romania, Serbia, Slovenia, Sri Lanka, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Ucraina, Vietnam).
Tuttavia sono indici non omogenei e senza altra logica se non il loro grado di sviluppo economico e finanziario: sebbene a volte siano fortemente diversificati, questi indici non consentono un’ottimizzazione dei temi d’investimento. “L’approccio di Amundi è basato invece su una classificazione di tipo «factor-investing». Abbiamo condotto diversi studi per classificare i Paesi emergenti, ma due, in particolare (pubblicati nel 2012 e nel 2014), meritano la nostra attenzione” rivela Philippe Ithurbide che poi spiega: “Il primo principio fondamentale è uno scoring che permette di classificare i Paesi analizzati in base a diversi criteri (crescita, inflazione/deflazione, vulnerabilità finanziaria ecc.) mentre il secondo è un’analisi statistica basata sulla prossimità economica che consente poi di riunire i Paesi in gruppi omogenei con fattori in comune”.
Si tratta di un approccio originale perché supera la logica del benchmark, della zona e della regione. “Dal 2014, per quanto riguarda il nostro approccio relative value (basato cioè sul valore relativo di un investimento rispetto ad un altro), consigliamo di investire nei Paesi che hanno una crescita autonoma, nei Paesi consumatori di materie Prime, nei Paesi con una bassa vulnerabilità esterna e, se possibile, nei Paesi con una divisa sottovalutata. In questa fase ha senso monitorare da vicino i Paesi produttori di materie prime, finora penalizzati e con una divisa fortemente sottovalutata” conclude lo strategist.