donald Trump
International Editor’s Picks – 30 gennaio 2017
30 Gennaio 2017 09:51
style="color: #4b72ab;">Luna di fiele
Di solito c’è la cosiddetta luna di miele. Un periodo di qualche mese in cui, accantonati i toni della campagna elettorale, il paese nel suo insieme accetta il nuovo presidente e lo lascia lavorare in pace. Dal canto suo il presidente evita decisioni drammatiche, studia le carte, incontra altri leader, si ambienta ne nuovo ruolo. L’intesa matrimoniale di Trump con l’America non è durata neanche la prima notte di nozze. Alla fine della sua prima settimana in carica è un putiferio e le prime pagine dei giornali USA di domenica sono un bollettino di guerra. Dopo i CEO dell’industria in fila a omaggiarlo, i mano nella mano con Theresa May, la rissa con il presidente messicano Pena Nieto, le telefonate a Putin, Merkel e Hollande, ora scoppia il caso della lista nera agli ingressi in USA per chi proviene da paesi a rischio. Vediamo come la prende Wall Street oggi pomeriggio. Sicuramente una partenza di presidenza così non si era mai vista. E sicuramente Trump con la lista nera ha offerto su un piatto d’argento l’occasione ai suoi molti detrattori in casa e in giro per il mondo per metterlo in difficoltà appena entrato alla Casa Bianca. Lo ha fatto apposta per saggiare fin da subito il tipo di resistenza che avrebbe incontrato? O ha calcolato male le conseguenze delle sue azioni? Non era difficile immaginare che a Brooklyn o da qualche altra parte si sarebbe trovato un giudice pronto a sbarrargli la strada. Forse la risposta giusta è la prima. Anche in questo caso tutte le previsioni, quelle secondo cui il Trump presidente sarebbe stato una persona diversa dal Trump candidato, si sono rivelate sbagliate. Fa quello che dice e dice quello che fa. Allacciarsi le cinture.
Il triangolo di Theresa
Mentre alla faccia della Brexit la Gran Bretagna archivia la miglior crescita economica realizzata da un paese del G7 nel 2016 con un PIL al 2%, contro l’1,9% dei tedeschi e l’1,6% degli americani, Madam Prime Minister vola da Washington a Ankara, per rafforzare la collaborazione economica e militare con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, ostracizzato dagli altri partner europei dopo la dura repressione seguita al tentato colpo di stato di luglio. Le foto comunicano un incontro cordiale quasi come quello di due giorni prima con Donald Trump. Theresa May porta a casa commesse per 100 milioni di sterline a favore dell’industria bellica britannica a beneficio di BAE Systems, con la promessa di altre forniture milionarie sempre nella difesa. “Questo accordo mostra una volta di più che la Gran Bretagna è una grande nazione aperta al business negli scambi globali,” ha dichiarato raggiante la May mandando chiaramente un messaggio agli amici di Bruxelles e Berlino con cui dovrà trattare la Brexit. Theresa in tre giorni chiude un triangolo tra Londra, Washington e Ankara nel segno della nuova globalizzazione bilaterale di cui sta diventando protagonista, che sta rapidamente prendendo il posto della “vecchia” globalizzazione che prevedeva tavoli come minimo a 20 posti. L’attivismo della May ci dice anche che le nuove intese commerciali bilaterali vanno a braccetto con la tessitura di nuove alleanze militari. Londra e Ankara fanno entrambe parte della NATO, ma si comportano come se non esistesse.
Svedesi alle armi
Una notizia passata quasi inosservata nei giorni scorsi: il governo svedese vuol reintrodurre il servizio militare obbligatorio per tutti. Stoccolma si prepara a dichiarare guerra alla Norvegia? Non esattamente. La motivazione ufficiale è che trovare reclute per un esercito di professionisti è sempre più difficile. Ma la decisione può essere un segno dei tempi. Tempi in cui le relazioni tra l’America di Trump e la Russia di Putin sembrano essere diventate più cordiali di quelle con gli alleati della NATO Germania e Francia, mentre la stessa Alleanza fa fatica a considerare ancora membro effettivo un altro importantissimo membro come la Turchia. La Svezia, a differenza di Norvegia e Danimarca, non fa parte della NATO. Ma è indubbio che nell’Europa di oggi il tema della sicurezza militare sta tornando paurosamente d’attualità, da Nord a Sud e da Est a Ovest. Per le ragioni più disparate. In Europa orientale e a Nord sul Baltico si teme la presunta aggressività di Putin, con la Germania che soffia sul fuoco alimentando il sentimento anti-russo come ha fatto con risultati disastrosi in Ucraina. In Europa centrale, occidentale e mediterranea il pericolo percepito è la spinta migratoria, le incursioni terroriste e l’instabilità esplosiva della sponda Sud dell’ex mare nostrum. E poi c’è la Gran Bretagna, da sempre il pilastro della sicurezza militare europea, che ora si sente attratta da un Trump come minimo freddo sull’utilità e sull’efficacia della NATO. Soprattutto se il conto dei costi lo deve sopportare in gran parte l’America. In questo quadro, è abbastanza naturale che alcuni comincino a pensare ad attrezzarsi da soli. Una preoccupazione che forse dovrebbe essere presa in considerazione in Italia, sicuramente tra i più esposti a turbolenze di ogni tipo. Ma parlare di investimenti in difesa nell’attuale clima politico può non essere molto popolare. Forse. Ma ignorare il problema potrebbe essere molto rischioso.
Di solito c’è la cosiddetta luna di miele. Un periodo di qualche mese in cui, accantonati i toni della campagna elettorale, il paese nel suo insieme accetta il nuovo presidente e lo lascia lavorare in pace. Dal canto suo il presidente evita decisioni drammatiche, studia le carte, incontra altri leader, si ambienta ne nuovo ruolo. L’intesa matrimoniale di Trump con l’America non è durata neanche la prima notte di nozze. Alla fine della sua prima settimana in carica è un putiferio e le prime pagine dei giornali USA di domenica sono un bollettino di guerra. Dopo i CEO dell’industria in fila a omaggiarlo, i mano nella mano con Theresa May, la rissa con il presidente messicano Pena Nieto, le telefonate a Putin, Merkel e Hollande, ora scoppia il caso della lista nera agli ingressi in USA per chi proviene da paesi a rischio. Vediamo come la prende Wall Street oggi pomeriggio. Sicuramente una partenza di presidenza così non si era mai vista. E sicuramente Trump con la lista nera ha offerto su un piatto d’argento l’occasione ai suoi molti detrattori in casa e in giro per il mondo per metterlo in difficoltà appena entrato alla Casa Bianca. Lo ha fatto apposta per saggiare fin da subito il tipo di resistenza che avrebbe incontrato? O ha calcolato male le conseguenze delle sue azioni? Non era difficile immaginare che a Brooklyn o da qualche altra parte si sarebbe trovato un giudice pronto a sbarrargli la strada. Forse la risposta giusta è la prima. Anche in questo caso tutte le previsioni, quelle secondo cui il Trump presidente sarebbe stato una persona diversa dal Trump candidato, si sono rivelate sbagliate. Fa quello che dice e dice quello che fa. Allacciarsi le cinture.
Il triangolo di Theresa
Mentre alla faccia della Brexit la Gran Bretagna archivia la miglior crescita economica realizzata da un paese del G7 nel 2016 con un PIL al 2%, contro l’1,9% dei tedeschi e l’1,6% degli americani, Madam Prime Minister vola da Washington a Ankara, per rafforzare la collaborazione economica e militare con la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, ostracizzato dagli altri partner europei dopo la dura repressione seguita al tentato colpo di stato di luglio. Le foto comunicano un incontro cordiale quasi come quello di due giorni prima con Donald Trump. Theresa May porta a casa commesse per 100 milioni di sterline a favore dell’industria bellica britannica a beneficio di BAE Systems, con la promessa di altre forniture milionarie sempre nella difesa. “Questo accordo mostra una volta di più che la Gran Bretagna è una grande nazione aperta al business negli scambi globali,” ha dichiarato raggiante la May mandando chiaramente un messaggio agli amici di Bruxelles e Berlino con cui dovrà trattare la Brexit. Theresa in tre giorni chiude un triangolo tra Londra, Washington e Ankara nel segno della nuova globalizzazione bilaterale di cui sta diventando protagonista, che sta rapidamente prendendo il posto della “vecchia” globalizzazione che prevedeva tavoli come minimo a 20 posti. L’attivismo della May ci dice anche che le nuove intese commerciali bilaterali vanno a braccetto con la tessitura di nuove alleanze militari. Londra e Ankara fanno entrambe parte della NATO, ma si comportano come se non esistesse.
Svedesi alle armi
Una notizia passata quasi inosservata nei giorni scorsi: il governo svedese vuol reintrodurre il servizio militare obbligatorio per tutti. Stoccolma si prepara a dichiarare guerra alla Norvegia? Non esattamente. La motivazione ufficiale è che trovare reclute per un esercito di professionisti è sempre più difficile. Ma la decisione può essere un segno dei tempi. Tempi in cui le relazioni tra l’America di Trump e la Russia di Putin sembrano essere diventate più cordiali di quelle con gli alleati della NATO Germania e Francia, mentre la stessa Alleanza fa fatica a considerare ancora membro effettivo un altro importantissimo membro come la Turchia. La Svezia, a differenza di Norvegia e Danimarca, non fa parte della NATO. Ma è indubbio che nell’Europa di oggi il tema della sicurezza militare sta tornando paurosamente d’attualità, da Nord a Sud e da Est a Ovest. Per le ragioni più disparate. In Europa orientale e a Nord sul Baltico si teme la presunta aggressività di Putin, con la Germania che soffia sul fuoco alimentando il sentimento anti-russo come ha fatto con risultati disastrosi in Ucraina. In Europa centrale, occidentale e mediterranea il pericolo percepito è la spinta migratoria, le incursioni terroriste e l’instabilità esplosiva della sponda Sud dell’ex mare nostrum. E poi c’è la Gran Bretagna, da sempre il pilastro della sicurezza militare europea, che ora si sente attratta da un Trump come minimo freddo sull’utilità e sull’efficacia della NATO. Soprattutto se il conto dei costi lo deve sopportare in gran parte l’America. In questo quadro, è abbastanza naturale che alcuni comincino a pensare ad attrezzarsi da soli. Una preoccupazione che forse dovrebbe essere presa in considerazione in Italia, sicuramente tra i più esposti a turbolenze di ogni tipo. Ma parlare di investimenti in difesa nell’attuale clima politico può non essere molto popolare. Forse. Ma ignorare il problema potrebbe essere molto rischioso.
Trending