banche centrali

Torna il confronto tra reflazionisti e deflazionisti

Ma l’investitore obbligazionario non è costretto a scommettere tra le due possibili opzioni: deve semmai diversificare tra più rischi, per averne meno.

21 Giugno 2017 09:45

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“I mercati non sembrano assecondare le valutazioni della Federal Reserve americana: stiamo assistendo a un nuovo episodio del confronto tra reflazionisti e deflazionisti” segnala nell’Alpha e i Beta del 19 giugno 2017 Carlo Benetti, Head of Market Research and Business Innovation di GAM (Italia) SGR. I primi mettono l’accento sulla forza dell’economia globale (in effetti ancora robusta), mentre i secondi sono più inclini a credere alla persistenza della ‘stagnazione secolare’, una fase caratterizzata dalle ‘quattro B’: bassa crescita, bassa inflazione, bassi tassi di investimento, bassa produttività.

Il problema è che le banche centrali non possono permettersi una nuova fase recessiva nell’immediato futuro. Infatti i tassi sono ancora troppo bassi, i bilanci troppo tirati (le principali quattro banche centrali delle economie avanzate sommano complessivamente quasi 14 mila miliardi di dollari): in pratica non avrebbero munizioni sufficienti. Per questo i banchieri centrali preferiscono scommettere sulla reflazione, sulla crescita e sull’inflazione.

Ma non è facile capire se l’inflazione sia ancora lontana oppure se, al contrario, con la disoccupazione USA al 4,3% le pressioni salariali sui prezzi siano più imminenti di quanto si pensi. D’altra parte le condizioni economiche non aiutano a scegliere: il dato di maggio della produzione industriale negli Stati Uniti, invariato, non impensierisce ancora, fa seguito al dato molto positivo del mese precedente (1,1%).

Alcuni indici anticipatori come l’Empire State e il Philly Fed preavvertono di una probabile accelerazione a breve. “Al di là della difformità tra dati soft come questi ultimi e i dati hard, quelli cioè ex post, è indubbio che il settore manifatturiero americano continui a beneficiare del contesto globale positivo e del dollaro debole” puntualizza Carlo Benetti che suggerisce di guardare pure alla riduzione del bilancio delle banche centrali. La Federal Reserve ha cominciato tre anni fa, la Banca Centrale Europea comincerà a breve. Sarà condotta con estrema gradualità, rallentando via via il reinvestimento dei titoli venuti a scadenza, saggiando la reazione dei mercati in un ambiente di crescita costante.

“L’investitore obbligazionario sembra costretto a scegliere tra il banco, le banche centrali reflazioniste, e gli altri giocatori, gli operatori deflazionisti” sintetizza Carlo Benetti secondo il quale, tuttavia, la cosa giusta da fare consiste nell’evitare di scegliere. Quando si pensa al futuro come se fosse una prosecuzione aggiornata del passato, per Carlo Benetti si rischiano amare delusioni e, se si tratta di investimenti, dolorosi rimpianti: la storia non si ripete mai, commetterebbe un grave errore di sottovalutazione chi confida nel passato.

Al di fuori delle obbligazioni c’è ancora valore nell’azionario: l’attività economica prosegue sincronica, la crescita dei profitti è robusta e diffusa, la rotazione settoriale premia i titoli di qualità e la selettività. “I timori che un incremento dei tassi e la forza del dollaro avrebbero danneggiato i mercati emergenti si sono attenuati, grazie alla gradualità della Fed, all’efficacia della forward guidance e al dollaro debole, benché non giustificato dai differenziali di rendimento” specifica Carlo Benetti secondo il quale, per l’investitore, non si tratta di aggiungere rischio ma di diversificare tra più rischi, per averne meno.

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