Banca Centrale Giappone

È ora di premere il tasto "Pausa"

Il mercato è forte, ma è anche vulnerabile agli shock. Attenzione alle parole di Draghi giovedì e ai numeri dell’inflazione americana. Intanto il campo dei Tori diventa affollato, e non è per forza un segnale rassicurante.

22 Gennaio 2018 09:24

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La settimana iniziata oggi, 22 gennaio, è la prima importante per i mercati di questo 2018, che sembrano voler sfidare la legge di gravità per quanto riguarda gli indici azionari, soprattutto americani. Diciamo subito che tra le cose importanti non c’è lo shutdown del governo americano, con cui ci hanno ammorbato i titoli di giornali e soprattutto telegiornali nel weekend parlando di Stati Uniti “nel caos” e di “festa rovinata” per il primo anno di governo di Trump. Dal 1976 ce ne sono stati 18, e tutti, ma proprio tutti, hanno avuto impatto zero sullo S&P 500. Ricordiamo che lo shutdown vuol dire che il governo federale può essere tecnicamente impossibilitato a spendere perché il Congresso non si mette d’accordo sul tetto all’indebitamento da adottare per l’anno fiscale corrente. In pratica vuol dire un ritardo di qualche giorno in qualche pagamento. Le ultime tre volte, nel 2013 (Obama), nel 1995 e nel 1995/1996 (Clinton) gli indici sono addirittura saliti durante gli shutdown.

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Torniamo alle cose importanti. Al primo posto troviamo la Banca del Giappone oggi ma soprattutto quella della BCE giovedì. Sia Kuroda che Draghi hanno iniziato una specie di mini-tapering, anche se la parola proibita non l’hanno mai pronunciata, riducendo di poco (BoJ molto, ma molto poco) gli acquisti mensili di titoli. È la lunga marcia verso la normalizzazione, una rotta verso terre inesplorate aperta dalla Fed nell’ormai lontano 2013. Sul tema il mercato ha i nervi a fior di pelle. La velocità, soprattutto quella percepita, è tutto. Accelerazioni brusche o non previste possono fare danni. È il rischio principale che abbiamo segnalato per il 2018 in EasyWatch, il punto-nave su mercati e economie che fa FinanciaLounge per i suoi sempre più numerosi lettori (clicca qui per riceverlo). Basta ricordare cosa è successo il 9 gennaio scorso, quando i verbali della riunione di dicembre hanno ‘rivelato’ che la BCE si sta preparando a modulare la sua comunicazione su una crescita forte e un’inflazione in miglioramento, anche se lontana dal target: l’euro è schizzato insieme al rendimento del bund tedesco. Draghi dovrà sfoggiare tutte le sue doti di incantatore di serpenti nella scelta delle parole da dire e da non dire alla conferenza stampa di giovedì.

Poi abbiamo Davos a partire da martedì 23 con Trump al suo debutto sulle nevi svizzere, preceduto da una mini-Davos convocata da Macron a Versailles con un manipolo di top people della business community globale, ma solo quelli che gli stanno simpatici. Ma qui siamo alla coreografia più che alla sostanza. Quella la troviamo nella stagione delle trimestrali che va avanti a Wall Street. Finora poco più di un titolo su 10 di quelli compresi nello S&P 500 le ha pubblicate, e di questi quasi il 70% ha battuto le attese. Oggi il rapporto tra prezzi di Borsa e utili attesi a 12 mesi, il famoso PE, è 18,4 volte, non ai livelli storici di bolla, ma parecchio sopra la media degli ultimi 5-10 anni, che sta tra le 14 e le 15 volte. Di più, negli ultimi nove mesi la Borsa americana ha infilato la più lunga serie consecutiva della sua lunga storia di sedute positive, vale a dire senza variazioni al ribasso significative. Ben 395 giorni senza un ribasso del 5%, il record precedente erano i 394 giorni della rincorsa delle dotcom del 1999. Dire che siamo in territorio ‘ipercomprato’ non è una bestemmia, ma non vuole neanche dire che l’esuberanza del Toro sia arrivata in territorio ‘irrazionale’.

Quello che può trasformare l’esuberanza in paura e voglia di scappare, anche qui probabilmente irrazionale, sono gli shock. L’indicatore da guardare con grandissima attenzione è l’inflazione. Se in Europa e in Giappone i segnali di ripresa sono ancora deboli e a macchia di leopardo, in America c’è qualcosa di più. Se si guarda la componente core dei prezzi al consumo USA di dicembre e si prende il dato annualizzato, vale a dire la variazione mensile proiettata su 12 mesi, non la distanza da un anno prima, si scopre un sorprendente +3,4%, ben sopra il target della Fed, la velocità più alta da gennaio 2017 e la terza più alta dell’attuale fase di espansione che data dal 2010. Un singolo dato mensile non basta a far scattare l’allarme rosso. Ma una Fed costretta dai dati a rincorrere anziché precedere le dinamiche reali dell’economia è proprio il tipo di shock che potrebbe far male a un mercato ipercomprato.

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Bottom line. Diciamo che alla fine la correzione è arrivata. Non sui prezzi delle azioni, ma in termini di sentiment degli investitori. Fino a poco fa avevamo il paradosso di un mercato che saliva e di investitori che si dichiaravano scettici o pessimisti in numero consistente, magari nella speranza di una bella correzione che offrisse l’opportunità di entrare a sconto. Ora assistiamo a molte conversioni al Toro di chi era schierato con gli Orsi, come hanno segnalato Robin Wigglesworth e Nicole Bullock sul FT di sabato. Non possiamo che concordare con il ‘Savy Investor’ che su Seeking Alpha scrive: per Wall Street potrebbe essere arrivato il momento di una bella pausa di consolidamento, ce ne sarebbe veramente bisogno.

(dalla rubrica “Caffè scorretto” della newsletter settimanale di FinanciaLounge)

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