Guerra commerciale
Dazi commerciali, con una escalation borse indietro di tre anni
Un’escalation dei dazi commerciali porterebbe a un aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse USA con un calo dei profitti aziendali e una forte correzione di Borsa.
9 Luglio 2018 10:20
Tutti o quasi, tra asset manager osservatori, economisti e analisti, si dichiarano convinti che una guerra commerciale su vasta scala sia ancora improbabile. Resta però il fatto che non passa settimana che non sia annunciata da Washington una nuova serie di dazi commerciali verso la Cina e che da Pechino arrivi la pronta risposta delle ritorsioni. Secondo Guy Hufbauer, ex alto funzionario del Tesoro americano per il commercio internazionale e politica di investimento degli anni Settanta, se si dovesse prendere di mira in modo significativo pure l’Europa, le tariffe americane arriveranno a coprire un quinto dell’import.
È vero, fa sapere l’esperto, che emergono forti pressioni statunitensi affinché l’amministrazione Trump ritorni sui propri passi, ma se l’escalation non si arresta c’è il rischio di una recessione globale. Anche secondo Luca Paolini, Chief Strategist di Pictet Asset Management le implicazioni di una guerra commerciale su scala globale si estenderanno ben oltre gli Stati Uniti e la Cina ma la vera minaccia sarebbe una stagflazione in tutto il mondo, ovvero una crescita anemica o piatta in un contesto di prezzi al consumo al rialzo.
“Quando il commercio si interrompe, perdono tutti. I nostri calcoli mostrano che una guerra commerciale su vasta scala tra gli Stati Uniti e la Cina - che riteniamo ancora improbabile - potrebbe portare l'economia globale nella stagflazione e determinare un forte calo dell’azionario mondiale” puntualizza Luca Paolini. D’altra parte il modello interno di Pictet AM, basato sulle stime dell’FMI (Fondo Monetario Internazionale) parla chiaro: nel momento in cui si introduce una tariffa del 10% sul commercio statunitense e questa venisse completamente trasferita al consumatore, l’inflazione globale tende ad aumentare di circa lo 0,7%.
Un fenomeno che, ipotizzando che i rendimenti dei bond USA salgano in linea con l’inflazione, causerebbe una contrazione dei profitti aziendali a livello mondiale del 2,5% che determinerebbe a sua volta una riduzione dei multipli (p/e) delle azioni fino al 15%, con le quotazioni dell’azionario mondiale in discesa tra il 15 e il 20%. “Tale scenario farebbe di fatto tornare indietro l’orologio del mercato azionario mondiale di tre anni. In simili circostanze, ne risentirebbero maggiormente le azioni degli esportatori cinesi e le azioni cicliche statunitensi, in particolare settori costosi come i beni voluttuari” specifica Luca Paolini.
Ma c’è di più. Come sempre ci sarebbero alcune economie particolarmente aperte al commercio internazionali (quali, per esempio, Taiwan, Corea del Sud e Singapore in Asia e Ungheria, Repubblica Ceca e Irlanda in Europa) che risulterebbero più esposte al problema di quanto non lo siano direttamente Stati Uniti e Cina.
“Il quadro che emerge dalla nostra analisi è simile a quello che gli investitori hanno precedentemente sperimentato. La storia dei mercati finanziari mostra che l'innalzamento di barriere commerciali è negativo per i mercati azionari: ad esempio, a metà del 1971, lo S&P500 scese del 10% nei tre mesi dopo che il presidente statunitense Richard Nixon impose una tariffa del 10% sulle importazioni” rammenta infine Luca Paolini.
C’È IL RISCHIO DI UNA RECESSIONE GLOBALE
È vero, fa sapere l’esperto, che emergono forti pressioni statunitensi affinché l’amministrazione Trump ritorni sui propri passi, ma se l’escalation non si arresta c’è il rischio di una recessione globale. Anche secondo Luca Paolini, Chief Strategist di Pictet Asset Management le implicazioni di una guerra commerciale su scala globale si estenderanno ben oltre gli Stati Uniti e la Cina ma la vera minaccia sarebbe una stagflazione in tutto il mondo, ovvero una crescita anemica o piatta in un contesto di prezzi al consumo al rialzo.
PERICOLO STAGFLAZIONE
“Quando il commercio si interrompe, perdono tutti. I nostri calcoli mostrano che una guerra commerciale su vasta scala tra gli Stati Uniti e la Cina - che riteniamo ancora improbabile - potrebbe portare l'economia globale nella stagflazione e determinare un forte calo dell’azionario mondiale” puntualizza Luca Paolini. D’altra parte il modello interno di Pictet AM, basato sulle stime dell’FMI (Fondo Monetario Internazionale) parla chiaro: nel momento in cui si introduce una tariffa del 10% sul commercio statunitense e questa venisse completamente trasferita al consumatore, l’inflazione globale tende ad aumentare di circa lo 0,7%.
POSSIBILE UNA FORTE CORREZIONE DI BORSA
Un fenomeno che, ipotizzando che i rendimenti dei bond USA salgano in linea con l’inflazione, causerebbe una contrazione dei profitti aziendali a livello mondiale del 2,5% che determinerebbe a sua volta una riduzione dei multipli (p/e) delle azioni fino al 15%, con le quotazioni dell’azionario mondiale in discesa tra il 15 e il 20%. “Tale scenario farebbe di fatto tornare indietro l’orologio del mercato azionario mondiale di tre anni. In simili circostanze, ne risentirebbero maggiormente le azioni degli esportatori cinesi e le azioni cicliche statunitensi, in particolare settori costosi come i beni voluttuari” specifica Luca Paolini.
Obbligazioni cinesi, tempo e Renminbi giocano a favore
Obbligazioni cinesi, tempo e Renminbi giocano a favore
PIÙ COLPITE LE ECONOMIA PIÙ APERTE
Ma c’è di più. Come sempre ci sarebbero alcune economie particolarmente aperte al commercio internazionali (quali, per esempio, Taiwan, Corea del Sud e Singapore in Asia e Ungheria, Repubblica Ceca e Irlanda in Europa) che risulterebbero più esposte al problema di quanto non lo siano direttamente Stati Uniti e Cina.
“Il quadro che emerge dalla nostra analisi è simile a quello che gli investitori hanno precedentemente sperimentato. La storia dei mercati finanziari mostra che l'innalzamento di barriere commerciali è negativo per i mercati azionari: ad esempio, a metà del 1971, lo S&P500 scese del 10% nei tre mesi dopo che il presidente statunitense Richard Nixon impose una tariffa del 10% sulle importazioni” rammenta infine Luca Paolini.
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