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Tutti contro tutti nelle nuove guerre per il petrolio
Il caso della Libia che precipita nel caos con possibili gravi conseguenze per le forniture energetiche italiane propone una variante del nuovo schema geopolitico globale dove gli alleati diventano nemici e viceversa.
5 Settembre 2018 16:44
Quando esplodevano negli anni Settanta del secolo scorso, le crisi del petrolio si abbattevano come tsunami sulle economie occidentali con effetti devastanti, facendo schizzare l’inflazione, aumentare i costi per tutte le industrie di trasformazione, rallentare la crescita e aumentare la disoccupazione.
La reazione fu duplice. Da un lato diversificazione energetica, con la costruzione di dozzine di centrali nucleari l’anno, dalla Francia alla Germania, dagli USA al Giappone alla Gran Bretagna. Dall’altro, accesso diretto alle fonti petrolifere con l’acquisizione di diritti di estrazione in tutto il mondo da parte dei grandi gruppi petroliferi dei paesi sviluppati. In quest’ultimo campo, l’Italia, assente dal nucleare pur essendone stata pioniere, con l’Eni è nel club dei grandi operatori globali, insieme a USA, Francia, Gran Bretagna. Un club che non ha fra i suoi soci la Germania, che allora puntò tutto sul nucleare e ora sta puntando tutto sulle rinnovabili, eolico in testa, per la produzione di energia elettrica.
Anche a seguito di questa ricomposizione dello scenario, nel mondo di oggi il prezzo del petrolio può essere un problema se è troppo basso, mentre se è alto è meglio tollerato, proprio perché ne beneficiano più degli altri i grandi gruppi dei paesi sviluppati grazie all’aumento del prezzo dei carburanti. Che in Italia continua a crescere al punto da portare Matteo Salvini a parlare di un possibile taglio dell’accisa sui carburanti.
Quello che è diventato importante non è più il prezzo, ma la sicurezza ‘fisica’ delle infrastrutture di approvvigionamento, gasdotti e oleodotti prima ancora che trasporto via mare. A differenza degli anni Settanta, la chiusura del rubinetto del gas in Russia o in Algeria può fare molto più male del blocco del passaggio delle petroliere per lo stretto di Hormuz, tra Arabia Saudita e Iran. Un altro fattore che è cambiato radicalmente è la posizione degli Stati Uniti sul mercato globale del petrolio e del gas, che da grandi importatori sono diventati autosufficienti e si preparano a diventare esportatori netti.
Per questo l’attenzione dell’amministrazione di Donald Trump per quello che succede nell’area del Golfo è diventata esclusivamente politico-militare, ma non economica. Lo stretto di Hormuz è sempre la giugulare del petrolio (non solo del petrolio iraniano) così come i gasdotti russi, ma una chiusura interromperebbe un flusso vitale soprattutto per la Germania, restando nell’area sviluppata. Per i paesi che sono andati a presidiare direttamente le fonti, come l’Italia in Libia con l’Eni, il rischio è l’instabilità politica, che potrebbe in caso estremo mettere in discussione le concessioni e persino la proprietà delle infrastrutture sul posto.
Per questo il caos in Libia è pericoloso per l’Eni ma anche per l’economia italiana in generale. E per questo un Iran che dovesse precipitare nel caos per la combinazione di sanzioni americane e inflazione galoppante è pericoloso soprattutto per i paesi europei che avevano scommesso di più sulla riammissione di Teheran al circuito del commercio mondiale: Francia e soprattutto Germania. La Libia era già un problema per l’Italia sul fronte incandescente dei migranti, ora potrebbe diventarlo su quello degli approvvigionamenti energetici, e chissà che le due cose non siano collegate. La sabbia libica non nasconde solo il petrolio e il lucroso business del traffico di esseri umani, ma anche un bel po’ di soldi.
Durante gli anni di Gheddafi il paese aveva accumulato una fortuna, custodita nelle casseforti dei suoi fondi sovrani che ancora esistono e detengono importanti quote azionarie sparse per il mondo, tra cui quasi l’1% dell’italiana Unicredit. Ovviamente sono soldi custoditi al riparo in conti bancari sparsi qua e là, soprattutto nel Golfo. Ma sono utili per pagare le milizie e spostare da una parte o dall’altra la bilancia militare e di conseguenza le chiavi dei pozzi di petrolio.
La bottom line è che nel nuovo mondo prima de- e poi ri-globalizzato non esistono problemi di tutti, ma ognuno deve fare i conti con i suoi, magari guardandosi le spalle proprio dal presunto alleato. Come nel caso di Italia e Francia sulla Libia. Ma anche nello strano triangolo Turchia-USA-Iran, dove il primo e il terzo sono alleati contro il secondo che però è legato al primo da un trattato militare che si chiama NATO.
NUCLEARE E GIACIMENTI
La reazione fu duplice. Da un lato diversificazione energetica, con la costruzione di dozzine di centrali nucleari l’anno, dalla Francia alla Germania, dagli USA al Giappone alla Gran Bretagna. Dall’altro, accesso diretto alle fonti petrolifere con l’acquisizione di diritti di estrazione in tutto il mondo da parte dei grandi gruppi petroliferi dei paesi sviluppati. In quest’ultimo campo, l’Italia, assente dal nucleare pur essendone stata pioniere, con l’Eni è nel club dei grandi operatori globali, insieme a USA, Francia, Gran Bretagna. Un club che non ha fra i suoi soci la Germania, che allora puntò tutto sul nucleare e ora sta puntando tutto sulle rinnovabili, eolico in testa, per la produzione di energia elettrica.
IL PREZZO DEL PETROLIO
Anche a seguito di questa ricomposizione dello scenario, nel mondo di oggi il prezzo del petrolio può essere un problema se è troppo basso, mentre se è alto è meglio tollerato, proprio perché ne beneficiano più degli altri i grandi gruppi dei paesi sviluppati grazie all’aumento del prezzo dei carburanti. Che in Italia continua a crescere al punto da portare Matteo Salvini a parlare di un possibile taglio dell’accisa sui carburanti.
Aramco resta protagonista della finanza saudita anche se l'IPO è sfumata
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GLI USA HANNO CAMBIATO PELLE
Quello che è diventato importante non è più il prezzo, ma la sicurezza ‘fisica’ delle infrastrutture di approvvigionamento, gasdotti e oleodotti prima ancora che trasporto via mare. A differenza degli anni Settanta, la chiusura del rubinetto del gas in Russia o in Algeria può fare molto più male del blocco del passaggio delle petroliere per lo stretto di Hormuz, tra Arabia Saudita e Iran. Un altro fattore che è cambiato radicalmente è la posizione degli Stati Uniti sul mercato globale del petrolio e del gas, che da grandi importatori sono diventati autosufficienti e si preparano a diventare esportatori netti.
LO STRETTO DI HORMUZ
Per questo l’attenzione dell’amministrazione di Donald Trump per quello che succede nell’area del Golfo è diventata esclusivamente politico-militare, ma non economica. Lo stretto di Hormuz è sempre la giugulare del petrolio (non solo del petrolio iraniano) così come i gasdotti russi, ma una chiusura interromperebbe un flusso vitale soprattutto per la Germania, restando nell’area sviluppata. Per i paesi che sono andati a presidiare direttamente le fonti, come l’Italia in Libia con l’Eni, il rischio è l’instabilità politica, che potrebbe in caso estremo mettere in discussione le concessioni e persino la proprietà delle infrastrutture sul posto.
ITALIA A RISCHIO LIBIA, GERMANIA A RISCHIO IRAN
Per questo il caos in Libia è pericoloso per l’Eni ma anche per l’economia italiana in generale. E per questo un Iran che dovesse precipitare nel caos per la combinazione di sanzioni americane e inflazione galoppante è pericoloso soprattutto per i paesi europei che avevano scommesso di più sulla riammissione di Teheran al circuito del commercio mondiale: Francia e soprattutto Germania. La Libia era già un problema per l’Italia sul fronte incandescente dei migranti, ora potrebbe diventarlo su quello degli approvvigionamenti energetici, e chissà che le due cose non siano collegate. La sabbia libica non nasconde solo il petrolio e il lucroso business del traffico di esseri umani, ma anche un bel po’ di soldi.
IL TESORO DI GHEDDAFI
Durante gli anni di Gheddafi il paese aveva accumulato una fortuna, custodita nelle casseforti dei suoi fondi sovrani che ancora esistono e detengono importanti quote azionarie sparse per il mondo, tra cui quasi l’1% dell’italiana Unicredit. Ovviamente sono soldi custoditi al riparo in conti bancari sparsi qua e là, soprattutto nel Golfo. Ma sono utili per pagare le milizie e spostare da una parte o dall’altra la bilancia militare e di conseguenza le chiavi dei pozzi di petrolio.
BOTTOM LINE
La bottom line è che nel nuovo mondo prima de- e poi ri-globalizzato non esistono problemi di tutti, ma ognuno deve fare i conti con i suoi, magari guardandosi le spalle proprio dal presunto alleato. Come nel caso di Italia e Francia sulla Libia. Ma anche nello strano triangolo Turchia-USA-Iran, dove il primo e il terzo sono alleati contro il secondo che però è legato al primo da un trattato militare che si chiama NATO.
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