ciclo economico
Trump teme la fine del ciclo e chiede una mano alla Fed
Molti segnali puntano all’avvicinamento della fine di un ciclo espansivo che dura da 10 anni. The Donald non vuole arrivare a novembre 2020 con l’economia in frenata o peggio. E chiede alla Fed di tornare al QE
8 Aprile 2019 09:33
Per avere la conferma dei dati bisogna aspettare il 26 aprile quando verrà pubblicato il PIL americano del primo trimestre, ma è certo che sarà eguagliato, e in corso d’anno quasi certamente superato, il record di 120 mesi della più lunga espansione USA della storia, messo a segno nel decennio 1991-2001. E’ ovvio che ci si interroghi su quanto ancora durerà questo ciclo. Nel suo ultimo outlook, datato primo aprile, BlackRock ha calcolato, basandosi sulle performance degli ultimi 28 trimestri, che a fine ciclo l’azionario globale mette a segno ritorni trimestrali sopra la media, sovraperformando il reddito fisso. Il trimestre che ci siamo appena lasciati alle spalle, per Wall Street il migliore dal 1987, sembra rispondere all’identikit. Altri segnali puntano nella stessa direzione. Il Job Report di venerdì scorso ha segnato l’interruzione di un’altra serie positiva, che durava da 19 mesi, costituita dalla creazione costante di nuovi posti nel settore manifatturiero. Il precedente record di 20 mesi, che risale al tempo di Reagan, resta in piedi. Un ciclo entrato nella fase finale non vuol dire che domani arriva la recessione. I modellini della Fed continuano a puntare a una crescita intorno al 2%. Ma potrebbe arrivare a 18-24 mesi.
La recessione è un fatto fisiologico e spesso anche salutare nella storia delle economie, può servire a resettare modelli di business e comportamenti per renderli più adeguati alle esigenze mutate del mercato. Spingere più in là l’orizzonte, magari stimolando un'economia con stimoli di cui non ha bisogno, potrebbe anche essere controproducente, allontanando il necessario aggiustamento e magari creando le condizioni per una recessione più dura di quella che sarebbe stata seguendo il corso ‘naturale’. Donald Trump non la pensa così, e chiede alla Fed, già reduce dall’inversione a U di fine dicembre-inizio gennaio quando ha adottato la pazienza sui tassi e annunciato che presto abbandonerà anche il Quantitative Tightening, di spingersi ancora oltre, di abbassare i tassi e tornare al Quantitative Easing dei tempi di Ben Bernanke. Come mai Trump non si accontenta di un Jay Powell trasformato da falco in colomba e gli chiede di indossare i panni di un Draghi o un Kuroda, nonostante l’economia americana continui a godere di ottima salute a differenza di quella europea, che rischia di finire in recessione, o di quella giapponese, che oscilla da molti trimestri tra il segno più e il meno?
La risposta sta nel calendario. Tra 19 mesi, anzi qualche giorno di meno, arrivano le elezioni presidenziali, per l’esattezza martedì 3 novembre 2020. Quasi contemporaneamente, forse qualche giorno prima, uscirà il PIL del terzo trimestre. E sarà comunque ancora fresco di inchiostro quello del secondo. Siamo esattamente nella fase temporale in cui la fine del ciclo attuale potrebbe essere sancita da un segno meno davanti al PIL. La recente inversione della curva dei tassi USA punta alla possibilità di un arrivo della recessione proprio intorno al terzo trimestre del 2020. Ovviamente non ci sono certezze, tutto può succedere. L’attuale ciclo di espansione non è stato certo ‘ruggente’ come quella del 1991-2001, e può darsi che anche la sua conclusione sia un movimento lento e prolungato. Ma, mettiamoci dal punto di vista di Trump, perché rischiare? Non è meglio che la Fed provveda a tenere a galla l’economia con ribassi dei tassi e QE anche se non ce n’è bisogno? Finora The Donald si è giocato tutto su un’economia che corre grazie alla sua politica per un "America Great Again" e alla sua riforma fiscale.
Arrivare al giorno dell’elezione con queste certezze messe in dubbio vorrebbe dire fare la fine di Bush Senior contro Clinton nel 1992. Nonostante fosse reduce dalla smagliante vittoria nel Golfo contro Saddam Hussein perse le elezioni contro un rivale che gli sventolava lo slogan ‘It’s the economy, stupid’. In realtà, povero Bush Senior, l’economia era appena entrata nel ciclo di espansione più lungo della storia americana. Ma i dati ancora non lo dicevano, e la percezione era che le cose stessero andando male. Trump non sa ancora se c’è un Bill Clinton tra i 18 (finora) esponenti democratici che hanno annunciato di volersi presentare alle primarie. Ma l’ultima cosa che vuole, chiunque sia, è mettergli in mano l’arma atomica di un’economia che non va. Una Fed ancora più accomodante piacerebbe sicuramente a Wall Street, vista la reazione dopo la svolta a U di fine dicembre. Almeno nell’immediato. Ma potrebbe anche essere indotta ad eccessi di euforia che, la storia insegna, di solito sono pericolosi.
La grande giostra della corsa alla Casa Bianca è cominciata, anche se per le primarie bisognerà aspettare l’inizio dell’anno prossimo. Se Trump non rinuncia, un’ipotesi lanciata qualche giorno fa dall’anchor di Fox News Tucker Carlson, sarà certamente il candidato del suo partito. L’incumbent non corre solo se lo ammazzano, come JFK, o se lo fanno dimettere prima, come Richard Nixon. Per sapere contro chi corre dovrà aspettare almeno un anno. Ma non per questo non comincerà a giocare. Anzi, ha già cominciato.
PRESSIONI SU POWELL PER UN’ALTRA INVERSIONE A U
La recessione è un fatto fisiologico e spesso anche salutare nella storia delle economie, può servire a resettare modelli di business e comportamenti per renderli più adeguati alle esigenze mutate del mercato. Spingere più in là l’orizzonte, magari stimolando un'economia con stimoli di cui non ha bisogno, potrebbe anche essere controproducente, allontanando il necessario aggiustamento e magari creando le condizioni per una recessione più dura di quella che sarebbe stata seguendo il corso ‘naturale’. Donald Trump non la pensa così, e chiede alla Fed, già reduce dall’inversione a U di fine dicembre-inizio gennaio quando ha adottato la pazienza sui tassi e annunciato che presto abbandonerà anche il Quantitative Tightening, di spingersi ancora oltre, di abbassare i tassi e tornare al Quantitative Easing dei tempi di Ben Bernanke. Come mai Trump non si accontenta di un Jay Powell trasformato da falco in colomba e gli chiede di indossare i panni di un Draghi o un Kuroda, nonostante l’economia americana continui a godere di ottima salute a differenza di quella europea, che rischia di finire in recessione, o di quella giapponese, che oscilla da molti trimestri tra il segno più e il meno?
UN CALENDARIO CON MOLTE TRAPPOLE
La risposta sta nel calendario. Tra 19 mesi, anzi qualche giorno di meno, arrivano le elezioni presidenziali, per l’esattezza martedì 3 novembre 2020. Quasi contemporaneamente, forse qualche giorno prima, uscirà il PIL del terzo trimestre. E sarà comunque ancora fresco di inchiostro quello del secondo. Siamo esattamente nella fase temporale in cui la fine del ciclo attuale potrebbe essere sancita da un segno meno davanti al PIL. La recente inversione della curva dei tassi USA punta alla possibilità di un arrivo della recessione proprio intorno al terzo trimestre del 2020. Ovviamente non ci sono certezze, tutto può succedere. L’attuale ciclo di espansione non è stato certo ‘ruggente’ come quella del 1991-2001, e può darsi che anche la sua conclusione sia un movimento lento e prolungato. Ma, mettiamoci dal punto di vista di Trump, perché rischiare? Non è meglio che la Fed provveda a tenere a galla l’economia con ribassi dei tassi e QE anche se non ce n’è bisogno? Finora The Donald si è giocato tutto su un’economia che corre grazie alla sua politica per un "America Great Again" e alla sua riforma fiscale.
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IL RISCHIO DI FARE LA FINE DI BUSH SENIOR
Arrivare al giorno dell’elezione con queste certezze messe in dubbio vorrebbe dire fare la fine di Bush Senior contro Clinton nel 1992. Nonostante fosse reduce dalla smagliante vittoria nel Golfo contro Saddam Hussein perse le elezioni contro un rivale che gli sventolava lo slogan ‘It’s the economy, stupid’. In realtà, povero Bush Senior, l’economia era appena entrata nel ciclo di espansione più lungo della storia americana. Ma i dati ancora non lo dicevano, e la percezione era che le cose stessero andando male. Trump non sa ancora se c’è un Bill Clinton tra i 18 (finora) esponenti democratici che hanno annunciato di volersi presentare alle primarie. Ma l’ultima cosa che vuole, chiunque sia, è mettergli in mano l’arma atomica di un’economia che non va. Una Fed ancora più accomodante piacerebbe sicuramente a Wall Street, vista la reazione dopo la svolta a U di fine dicembre. Almeno nell’immediato. Ma potrebbe anche essere indotta ad eccessi di euforia che, la storia insegna, di solito sono pericolosi.
BOTTOM LINE
La grande giostra della corsa alla Casa Bianca è cominciata, anche se per le primarie bisognerà aspettare l’inizio dell’anno prossimo. Se Trump non rinuncia, un’ipotesi lanciata qualche giorno fa dall’anchor di Fox News Tucker Carlson, sarà certamente il candidato del suo partito. L’incumbent non corre solo se lo ammazzano, come JFK, o se lo fanno dimettere prima, come Richard Nixon. Per sapere contro chi corre dovrà aspettare almeno un anno. Ma non per questo non comincerà a giocare. Anzi, ha già cominciato.
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