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Dazi, Trump ha sottovalutato la reazione della Cina?
Né Stati Uniti né Cina vogliono perdere la faccia con un passo indietro, ma Trump aveva realmente messo in conto la risposta di Xi? Ecco perché, secondo Schroders, i rischi di un’escalation sui dazi sono aumentati
6 Agosto 2019 16:00
In un contesto nel quale si evidenziano continui segnali di rallentamento dell’economia a livello globale, la nuova brusca impennata delle tensioni nelle dispute commerciali tra Washington e Pechino non può che costituire un ulteriore fattore di freno sull’attività economica in tutte le aree geografiche del mondo. “I programmi di investimento, sia governativi che aziendali, saranno probabilmente rimandati o azzerati mentre gli scambi commerciali sono destinati a registrare una nuova contrazione. Inoltre, se è vero che a risentirne in modo maggiore dovrebbe essere la filiera produttiva in Cina e Asia, anche la crescita statunitense subirà dei contraccolpi” specificano Keith Wade, Chief Economist & Strategist, e Craig Botham, Senior Emerging Markets Economist di Schroders.
Un’altra conseguenza diretta di queste nuove tensioni è il rafforzamento del dollaro che, a cascata, esercita pressioni sulla Federal Riserve che potrebbe dover tagliare i tassi più velocemente e in modo più incisivo di quanto previsto. “Se così fosse” spiegano Keith Wade e Craig Botham “il presidente Trump potrebbe sentirsi accontentato al punto che potrebbe anche decidere di cambiare idea sui dazi anche con uno dei suoi soliti tweet. Tuttavia, sarebbe difficile non arrivare alla conclusione che ha calcolato male la reazione della Cina” puntualizzano i due esperti.
Una tesi, la loro, frutto di un’attenta analisi delle conseguenze della decisione del presidente statunitensi di imporre dazi al 10% su importazioni dalla Cina per un controvalore di 300 miliardi di dollari. Pechino, dal canto suo, non è arretrata di un passo e, anzi, è passata al contrattacco pilotando il cambio Usd/Cny oltre quota 7, un livello ampiamente considerato come una soglia limite per la valuta. “Oltre alla mossa sullo yuan, le autorità cinesi hanno anche imposto alle aziende di stato (State-Owned Enterprises) di sospendere gli acquisti di importazioni agricole dagli Stati Uniti” precisano Keith Wade e Craig Botham.
Certo, il tasso di cambio Usd/Cny era nell’agenda dei negoziati commerciali e Pechino aveva evitato di agire sulla valuta perché le trattative con l’amministrazione Trump sembravano compiere dei progressi. Ma la nuova inaspettata decisione del presidente Usa ha scompaginato ogni equilibrio e lo yuan si è fortemente indebolito richiamando i timori dell’estate 2015 quando la divisa cinese si deprezzò improvvisamente provocando un violento sell-off (vendita di titoli sul mercato senza limitazione né di quantità né di prezzo). Anche stavolta i mercati hanno reagito negativamente, con gli asset rischiosi (azioni, obbligazioni societarie e mercati emergenti) sotto pressione e, in parallelo, la corsa ai beni rifugio come i Titoli di Stato, lo yen e l’oro.
“Tuttavia emergono profonde differenze tra questa svalutazione e quella di quattro anni fa” sottolineano Keith Wade e Craig Botham, che poi aggiungono : “Se nel 2015 la svalutazione colpì di sorpresa i mercati senza una anche minima ragione, stavolta le motivazioni sono evidenti. Inoltre, tra le maggiori differenze, si può segnalare il fatto che quattro anni fa l’esposizione in valuta delle imprese era priva di copertura di cambio e del tutto impreparata nei confronti di un deprezzamento dello yuan”. Oggi i messaggi e le spiegazioni sull’indebolimento della valuta cinese sono piuttosto chiari mentre nel 2015 furono interpretate come un segnale di debolezza economica sottostante. Per tutte queste ragioni, Keith Wade e Craig Botham non prevedono lo stesso percorso visto quattro anni fa. Questo, però, non significa che la situazione non sia piuttosto delicata.
“Pechino sembrava intenzionata ad includere in qualsiasi accordo la rimozione delle tariffe commerciali mentre Trump ha preferito alzare il tiro con questo nuovo annuncio sui dazi. Ma ora sia Washington che Pechino sembrano essere nella scomoda posizione in cui non possono tirarsi indietro senza ‘perdere la faccia’. Ecco perché, la prospettiva di un accordo Usa-Cina si è ridotta e i rischi di un’escalation sono aumentati” concludono Keith Wade e Craig Botham.
DOLLARO FORTE E FED SOTTO PRESSIONE
Un’altra conseguenza diretta di queste nuove tensioni è il rafforzamento del dollaro che, a cascata, esercita pressioni sulla Federal Riserve che potrebbe dover tagliare i tassi più velocemente e in modo più incisivo di quanto previsto. “Se così fosse” spiegano Keith Wade e Craig Botham “il presidente Trump potrebbe sentirsi accontentato al punto che potrebbe anche decidere di cambiare idea sui dazi anche con uno dei suoi soliti tweet. Tuttavia, sarebbe difficile non arrivare alla conclusione che ha calcolato male la reazione della Cina” puntualizzano i due esperti.
CAMBIO USD/CNY OLTRE QUOTA SETTE
Una tesi, la loro, frutto di un’attenta analisi delle conseguenze della decisione del presidente statunitensi di imporre dazi al 10% su importazioni dalla Cina per un controvalore di 300 miliardi di dollari. Pechino, dal canto suo, non è arretrata di un passo e, anzi, è passata al contrattacco pilotando il cambio Usd/Cny oltre quota 7, un livello ampiamente considerato come una soglia limite per la valuta. “Oltre alla mossa sullo yuan, le autorità cinesi hanno anche imposto alle aziende di stato (State-Owned Enterprises) di sospendere gli acquisti di importazioni agricole dagli Stati Uniti” precisano Keith Wade e Craig Botham.
SELL-OFF SUI MERCATI E CORSA AI BENI RIFUGIO
Certo, il tasso di cambio Usd/Cny era nell’agenda dei negoziati commerciali e Pechino aveva evitato di agire sulla valuta perché le trattative con l’amministrazione Trump sembravano compiere dei progressi. Ma la nuova inaspettata decisione del presidente Usa ha scompaginato ogni equilibrio e lo yuan si è fortemente indebolito richiamando i timori dell’estate 2015 quando la divisa cinese si deprezzò improvvisamente provocando un violento sell-off (vendita di titoli sul mercato senza limitazione né di quantità né di prezzo). Anche stavolta i mercati hanno reagito negativamente, con gli asset rischiosi (azioni, obbligazioni societarie e mercati emergenti) sotto pressione e, in parallelo, la corsa ai beni rifugio come i Titoli di Stato, lo yen e l’oro.
La Cina apre la guerra delle valute, ma può farsi male per prima
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LE DIFFERENZE CON LA SVALUTAZIONE DEL 2015
“Tuttavia emergono profonde differenze tra questa svalutazione e quella di quattro anni fa” sottolineano Keith Wade e Craig Botham, che poi aggiungono : “Se nel 2015 la svalutazione colpì di sorpresa i mercati senza una anche minima ragione, stavolta le motivazioni sono evidenti. Inoltre, tra le maggiori differenze, si può segnalare il fatto che quattro anni fa l’esposizione in valuta delle imprese era priva di copertura di cambio e del tutto impreparata nei confronti di un deprezzamento dello yuan”. Oggi i messaggi e le spiegazioni sull’indebolimento della valuta cinese sono piuttosto chiari mentre nel 2015 furono interpretate come un segnale di debolezza economica sottostante. Per tutte queste ragioni, Keith Wade e Craig Botham non prevedono lo stesso percorso visto quattro anni fa. Questo, però, non significa che la situazione non sia piuttosto delicata.
I RISCHI DI ESCALATION SONO AUMENTATI
“Pechino sembrava intenzionata ad includere in qualsiasi accordo la rimozione delle tariffe commerciali mentre Trump ha preferito alzare il tiro con questo nuovo annuncio sui dazi. Ma ora sia Washington che Pechino sembrano essere nella scomoda posizione in cui non possono tirarsi indietro senza ‘perdere la faccia’. Ecco perché, la prospettiva di un accordo Usa-Cina si è ridotta e i rischi di un’escalation sono aumentati” concludono Keith Wade e Craig Botham.