cina
Ecco perché è il momento di puntare anche sui mercati emergenti
In passato valute e debito degli emergenti sono stati più vulnerabili, ma non sono in vista crisi come negli anni '90: il trend di crescita ha fatto solo una pausa e resta una certezza
12 Luglio 2021 08:24
Da una quarantina d’anni l’inflazione non è più il nemico più temuto dai banchieri centrali. I mercati l’hanno capito e anche strappi un po’ violenti come quelli di aprile-maggio in America vengono digeriti facilmente. Ma questo vale per le economie sviluppate, dall’America all’Eurozona fino al Giappone passando per Cina e Corea, che ormai fanno parte a pieno titolo del club anche se in molti indici sono ancora classificate come emergenti, e molto meno per il resto del mondo. Qui infatti l’inflazione non ha mai smesso di porre seri rischi alla stabilità finanziaria di singoli Paesi o di intere aree, soprattutto in termini di stabilità della valuta locale e flussi di capitale da o verso l’estero. E in tempi di massiccia spesa pubblica, per sanare le ferite inferte dalla pandemia e per far ripartire le economie, è un problema che si fa sentire. La Fed, la Bce, ma anche giapponesi, svizzeri e britannici, possono stampare tutti i dollari, gli euro e gli yen che vogliono, con la certezza che il mercato continuerà ad assorbirli senza fargli perdere valore. E infatti il forex, che per scambi è il più grande mercato del mondo anche se l’unico non regolamentato, da dopo la Grande Crisi Finanziaria è praticamente ingessato, almeno per quanto riguarda le principali monete di riserva.
Lo stesso non può dirsi per la lira turca, il rublo russo, il peso argentino o messicano, il real brasiliano, il rand sudafricano, per non parlare di Paesi ormai in default cronico come il Venezuela. L’inflazione non impatta allo stesso modo i Paesi sviluppati e gli emergenti. La Fed americana può permettersi di tenere i tassi a 0-0,25% con un’inflazione che viaggia (temporaneamente) al 5%, ma un’inflazione appena più alta al 5,8% impone al vicino Messico tassi di interesse al 4,25%, mentre a prezzi al consumo appena sopra il 6% in Russia e India corrispondono tassi rispettivamente al 4% e al 5,5%. e il Sudafrica deve tenerli al 3,5% nonostante un’inflazione pari a quella americana. Un’altra cosa interessante è che tutti questi Paesi vantano un rapporto debito/PIL molto basso, diversi addirittura sotto il 50%, contro il 100% e passa degli USA, mentre l’Eurozona che ha i tassi a zero viaggia appena sotto. Quindi i mercati non prezzano il rischio di insostenibilità del debito, ma semplicemente quello che la moneta perda valore per l’erosione da inflazione, non temuto invece per i Paesi sviluppati.
Il timore che la moneta perda valore impatta il costo del debito, sia in valuta locale che forte, costringendo ad esempio il Messico, che ha un debito/PIL sotto il 50%, a pagare sulle scadenze a 10 anni quasi il 7%, contro l’1,4% del Treasury americano. Ora il rischio è che il premio chiesto dai mercati, a fronte della prospettiva di maggior debito pubblico per finanziare il contrasto alla pandemia e la ripartenza economica, possa salire significativamente, spingendo al rialzo tassi già elevati per le aspettative di inflazione. È un film già visto, e con un brutto finale, negli ultimi decenni, soprattutto negli anni 90 del secolo scorso quando si sono alternate le crisi delle ‘tigri asiatiche’, quella messicana e il default russo, che nel 1998 fece collassare un grande hedge fund americano, il Long Term Capital Management di John Meriwether, salvato dalla Fed di New York con un’operazione che poi fece da modello ai mega-salvataggi della Grande Crisi. I premi Nobel che Meriwether aveva ingaggiato nel board erano convinti che fosse impossibile un default sul debito in valuta locale, perché la banca centrale ne può stampare quanta ne vuole. La Russia di Yeltsin preferì invece lasciar andare il rublo, che andò a picco insieme al LTCM.
Sta per andare in scena una replica di quelle crisi? Quasi certamente no. La crescita di ceti medi sempre più vasti nei Paesi emergenti li ha resi meno dipendenti dalle esportazioni e dai capitali esteri, e quando si verificano situazioni difficili, come recentemente in Turchia e Argentina, restano localizzate e non scatenano effetti domino. La difficile uscita dalla pandemia può mettere alla prova questo paradigma, ma a differenza degli anni '90 le autorità dei Paesi sviluppati sono più consapevoli dei rischi e più pronte ad anticiparli, a cominciare dal sostegno alle campagne vaccinali, che sono la base su cui costruire la ripartenza delle economie, destinate a crescere di più e solidamente, grazie anche a fattori demografici, il che alla fine farà scendere il costo del capitale, sia per le imprese che per gli Stati. Resta un interrogativo Cina, certamente non più ‘emergente’, dove l’inflazione è appena sopra l’1%, ma il tasso di interesse viaggia al 3,85%, ma sul debito a 10 anni è al 3,0%. Qui non sono i mercati che prezzano un rischio elevato, ma le autorità che tengono le redini strette per evitare il surriscaldamento del mercato del credito.
Così come il risveglio dei temi ciclici sembra destinato a lasciare il passo al ritorno dei trend secolari della tecnologia, della sanità e dei nuovi modelli di consumo, anche la frenata da pandemia delle economie emergenti sembra destinata ad essere passeggera per tornare al trend di lungo termine di una crescita più robusta rispetto ai Paesi sviluppati.
TASSI PIÙ ALTI MA DEBITO CONTENUTO
Lo stesso non può dirsi per la lira turca, il rublo russo, il peso argentino o messicano, il real brasiliano, il rand sudafricano, per non parlare di Paesi ormai in default cronico come il Venezuela. L’inflazione non impatta allo stesso modo i Paesi sviluppati e gli emergenti. La Fed americana può permettersi di tenere i tassi a 0-0,25% con un’inflazione che viaggia (temporaneamente) al 5%, ma un’inflazione appena più alta al 5,8% impone al vicino Messico tassi di interesse al 4,25%, mentre a prezzi al consumo appena sopra il 6% in Russia e India corrispondono tassi rispettivamente al 4% e al 5,5%. e il Sudafrica deve tenerli al 3,5% nonostante un’inflazione pari a quella americana. Un’altra cosa interessante è che tutti questi Paesi vantano un rapporto debito/PIL molto basso, diversi addirittura sotto il 50%, contro il 100% e passa degli USA, mentre l’Eurozona che ha i tassi a zero viaggia appena sotto. Quindi i mercati non prezzano il rischio di insostenibilità del debito, ma semplicemente quello che la moneta perda valore per l’erosione da inflazione, non temuto invece per i Paesi sviluppati.
LA LEZIONE DEL DEFAULT RUSSO DEL '98
Il timore che la moneta perda valore impatta il costo del debito, sia in valuta locale che forte, costringendo ad esempio il Messico, che ha un debito/PIL sotto il 50%, a pagare sulle scadenze a 10 anni quasi il 7%, contro l’1,4% del Treasury americano. Ora il rischio è che il premio chiesto dai mercati, a fronte della prospettiva di maggior debito pubblico per finanziare il contrasto alla pandemia e la ripartenza economica, possa salire significativamente, spingendo al rialzo tassi già elevati per le aspettative di inflazione. È un film già visto, e con un brutto finale, negli ultimi decenni, soprattutto negli anni 90 del secolo scorso quando si sono alternate le crisi delle ‘tigri asiatiche’, quella messicana e il default russo, che nel 1998 fece collassare un grande hedge fund americano, il Long Term Capital Management di John Meriwether, salvato dalla Fed di New York con un’operazione che poi fece da modello ai mega-salvataggi della Grande Crisi. I premi Nobel che Meriwether aveva ingaggiato nel board erano convinti che fosse impossibile un default sul debito in valuta locale, perché la banca centrale ne può stampare quanta ne vuole. La Russia di Yeltsin preferì invece lasciar andare il rublo, che andò a picco insieme al LTCM.
LA FORZA DEI CETI MEDI EMERGENTI
Sta per andare in scena una replica di quelle crisi? Quasi certamente no. La crescita di ceti medi sempre più vasti nei Paesi emergenti li ha resi meno dipendenti dalle esportazioni e dai capitali esteri, e quando si verificano situazioni difficili, come recentemente in Turchia e Argentina, restano localizzate e non scatenano effetti domino. La difficile uscita dalla pandemia può mettere alla prova questo paradigma, ma a differenza degli anni '90 le autorità dei Paesi sviluppati sono più consapevoli dei rischi e più pronte ad anticiparli, a cominciare dal sostegno alle campagne vaccinali, che sono la base su cui costruire la ripartenza delle economie, destinate a crescere di più e solidamente, grazie anche a fattori demografici, il che alla fine farà scendere il costo del capitale, sia per le imprese che per gli Stati. Resta un interrogativo Cina, certamente non più ‘emergente’, dove l’inflazione è appena sopra l’1%, ma il tasso di interesse viaggia al 3,85%, ma sul debito a 10 anni è al 3,0%. Qui non sono i mercati che prezzano un rischio elevato, ma le autorità che tengono le redini strette per evitare il surriscaldamento del mercato del credito.
BOTTOM LINE
Così come il risveglio dei temi ciclici sembra destinato a lasciare il passo al ritorno dei trend secolari della tecnologia, della sanità e dei nuovi modelli di consumo, anche la frenata da pandemia delle economie emergenti sembra destinata ad essere passeggera per tornare al trend di lungo termine di una crescita più robusta rispetto ai Paesi sviluppati.
Trending