Attese e mercati
Ecco perché molti big non fuggono dalle azioni cinesi ma aumentano gli investimenti
I grandi investitori istituzionali non sono spaventati dalla "stretta" di Pechino ma hanno approfittato degli storni per rafforzare le posizioni. La chiave per capire il mercato cinese è la politica
2 Agosto 2021 08:27
Quando Marco Bellocchio girava "La Cina è vicina" l’attuale superpotenza era percorsa dalle squadre di ragazzini delle Guardie Rosse di Mao impegnate a spazzare via con la Rivoluzione Culturale e metodi abbastanza sanguinari i rimasugli del passato e i carrieristi della politica che si erano fatti strada negli apparati dandosi una verniciata di comunismo. Il film del lontano 1967 parlava poco o nulla del grande paese, usato come spauracchio delle fine che incombeva sui meschini personaggi della provincia italiana impegnati nelle loro personali arrampicate socio-politiche, sbeffeggiati dall’ironia del regista allora neanche trentenne. La Rivoluzione Culturale finì solo nel 1976 con la morte di Mao e l’arresto della Banda dei Quattro che ne aveva prese le redini, lasciando in eredità una devastazione sia economica che umana, con una ventina di milioni di morti ammazzati. Dopo di che Deng prese in mano la situazione avviando la Cina sul sentiero dell’economia "socialista di mercato", che l’ha portata al rango di seconda superpotenza economica globale rendendola ancora più vicina, ma non nel senso immaginato da Bellocchio.
Ora ci risiamo? La stretta regolatoria di Pechino che ha preso di mira soprattutto i Big Tech è l’avvisaglia di una nuova Rivoluzione Culturale 65 anni dopo? Oppure è un’accelerazione sulla strada aperta da Deng per la realizzazione di quel ‘socialismo con caratteristiche cinesi’ da lui inventato e oggi reinterpretato da Xi Jinping? Secondo i critici Xi ha in parte smontato alcune riforme di Deng tornando an maggior controllo della politica e dello Stato in economia. Ma Deng aveva preso in mano un’economia in ginocchio e un paese letteralmente affamato, e quindi un po’ di ‘Far West’ per far ripartire il tutto ci poteva stare. Ora la dimensione economica cinese è cresciuta esponenzialmente, insieme al reddito di centinaia di milioni di persone, e magari qualche regola in più non guasta. A condizione di non far entrare in rotta di collisione le due parole magiche dell’equazione di Deng, vale a dire mercato e socialismo. Potremmo dire che più il secondo termine si allontana dal suo significato ideologico e si avvicina al Social della triade ESG, più siamo sulla strada giusta.
Sul fronte di chi dà credito a Pechino ci sono gli investitori istituzionali. Secondo la società di ricercar specializzata in fondi EPFR Global questi hanno infatti colto l’opportunità dello storno dell’azionario cinese per comprare, per la precisione, nella settimana chiusa mercoledì 28 luglio hanno aggiunto 3,6 miliardi di dollari a quanto detenuto in azioni cinesi di cui un dieci per cento in titoli tech. Lo ha riferito a CNBC la stessa EPFR, che è una controllata di Informa Financial Intelligence, che traccia gli investimenti di oltre 134.000 fondi con asset gestiti per quasi 50.000 miliardi di dollari. Di più, la stessa EPFR segnala che di recente le azioni cinesi hanno attratto più investimenti da parte dei fondi di quelle americane, in un rapporto di 10 a 1 sempre nell’arco di una settimana.
Anche il WSJ ha riportato che molti investitori USA sono rimasti bullish sulle prospettive di lungo termine dell’azionario cinese nonostante le mosse a sorpresa di Xi Jinping. La motivazione è che semplicemente non si può ignorare la storia di crescita di un’economia in corsa per sorpassare quella americana nel prossimo decennio. Al quadro si aggiunge quanto dichiarato sempre a CNBC da Dan Niles, che gestisce l’Hedge fund Satori della Pennsylvania, che dopo la stretta di Pechino ha ripreso ad acquistare azioni cinesi. Il fatto che siano i professionisti dell’investimento a non scappare dalla Cina, anzi, offre anche un’altra chiave di lettura. Investire a Shanghai o Shenzhen non è come farlo a Wall Street, Londra, Francoforte o Milano, serve un plus di conoscenza non solo del mercato e dei fondamentali societari, ma su come ‘pensa’ e funziona la politica cinese, che non è alla portata del magari anche bravo individual investor.
Per investire in Cina non serve forse sapere il cinese, ma sicuramente serve, come avverte Fidelity International, "imparare la politica cinese". E i primi a saperlo sembrano proprio i policy makers e i regolatori di Pechino che, secondo quanto riporta ancora il WSJ, hanno cominciato a contattare direttamente e con discrezione gli investitori internazionali spiegando che prima di introdurre e annunciare nuove misure ne valutano attentamente l’impatto di mercato. In particolare il Journal riporta che Fang Xinghai, vice chairman della Securities Regulatory Commission cinese ha parlato direttamente con rappresentanti dei big globali della finanza, come Goldman Sachs e UBS, oltre a investitori istituzionali particolarmente pesanti.
LA VECCHIA EQUAZIONE DI DENG HA FUNZIONATO
Ora ci risiamo? La stretta regolatoria di Pechino che ha preso di mira soprattutto i Big Tech è l’avvisaglia di una nuova Rivoluzione Culturale 65 anni dopo? Oppure è un’accelerazione sulla strada aperta da Deng per la realizzazione di quel ‘socialismo con caratteristiche cinesi’ da lui inventato e oggi reinterpretato da Xi Jinping? Secondo i critici Xi ha in parte smontato alcune riforme di Deng tornando an maggior controllo della politica e dello Stato in economia. Ma Deng aveva preso in mano un’economia in ginocchio e un paese letteralmente affamato, e quindi un po’ di ‘Far West’ per far ripartire il tutto ci poteva stare. Ora la dimensione economica cinese è cresciuta esponenzialmente, insieme al reddito di centinaia di milioni di persone, e magari qualche regola in più non guasta. A condizione di non far entrare in rotta di collisione le due parole magiche dell’equazione di Deng, vale a dire mercato e socialismo. Potremmo dire che più il secondo termine si allontana dal suo significato ideologico e si avvicina al Social della triade ESG, più siamo sulla strada giusta.
GLI ISTITUZIONALI DANNO CREDITO A PECHINO
Sul fronte di chi dà credito a Pechino ci sono gli investitori istituzionali. Secondo la società di ricercar specializzata in fondi EPFR Global questi hanno infatti colto l’opportunità dello storno dell’azionario cinese per comprare, per la precisione, nella settimana chiusa mercoledì 28 luglio hanno aggiunto 3,6 miliardi di dollari a quanto detenuto in azioni cinesi di cui un dieci per cento in titoli tech. Lo ha riferito a CNBC la stessa EPFR, che è una controllata di Informa Financial Intelligence, che traccia gli investimenti di oltre 134.000 fondi con asset gestiti per quasi 50.000 miliardi di dollari. Di più, la stessa EPFR segnala che di recente le azioni cinesi hanno attratto più investimenti da parte dei fondi di quelle americane, in un rapporto di 10 a 1 sempre nell’arco di una settimana.
MOLTI INVESTITORI USA RIMASTI BULLISH
Anche il WSJ ha riportato che molti investitori USA sono rimasti bullish sulle prospettive di lungo termine dell’azionario cinese nonostante le mosse a sorpresa di Xi Jinping. La motivazione è che semplicemente non si può ignorare la storia di crescita di un’economia in corsa per sorpassare quella americana nel prossimo decennio. Al quadro si aggiunge quanto dichiarato sempre a CNBC da Dan Niles, che gestisce l’Hedge fund Satori della Pennsylvania, che dopo la stretta di Pechino ha ripreso ad acquistare azioni cinesi. Il fatto che siano i professionisti dell’investimento a non scappare dalla Cina, anzi, offre anche un’altra chiave di lettura. Investire a Shanghai o Shenzhen non è come farlo a Wall Street, Londra, Francoforte o Milano, serve un plus di conoscenza non solo del mercato e dei fondamentali societari, ma su come ‘pensa’ e funziona la politica cinese, che non è alla portata del magari anche bravo individual investor.
LA CHIAVE È LA POLITICA CINESE
Per investire in Cina non serve forse sapere il cinese, ma sicuramente serve, come avverte Fidelity International, "imparare la politica cinese". E i primi a saperlo sembrano proprio i policy makers e i regolatori di Pechino che, secondo quanto riporta ancora il WSJ, hanno cominciato a contattare direttamente e con discrezione gli investitori internazionali spiegando che prima di introdurre e annunciare nuove misure ne valutano attentamente l’impatto di mercato. In particolare il Journal riporta che Fang Xinghai, vice chairman della Securities Regulatory Commission cinese ha parlato direttamente con rappresentanti dei big globali della finanza, come Goldman Sachs e UBS, oltre a investitori istituzionali particolarmente pesanti.
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