Guerra e inflazione

Schroders: il conflitto in Medio Oriente può spingere la Fed ad un nuovo rialzo dei tassi

Tuttavia, secondo David Rees non va però sopravvalutata la minaccia immediata di un aumento dell’inflazione complessiva a causa dell'incremento dei prezzi dell'energia

di Leo Campagna 19 Ottobre 2023 07:50

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Il 7 ottobre il massacro di centinaia di civili israeliani ad opera di Hamas al rave nel deserto ha fatto riprecipitare la già delicata situazione in Medio Oriente. Le tensioni in quella regione tendono rapidamente a trasmettersi sui prezzi dell'energia: nell’ultima settimana, infatti, il prezzo del Brent si è attestato intorno ai 91 dollari (al 16 ottobre), tra le crescenti preoccupazioni di disruption all'approvvigionamento che potrebbero, con tutta probabilità, spingere i prezzi molto più in alto in futuro.

LE TENSIONI IN MEDIO ORIENTE SPINGONO I PREZZI DEL PETROLIO


“Storicamente le tensioni nella regione hanno spinto il prezzo del petrolio. L'esempio più drammatico è quello degli anni '70, quando le quotazioni sono quadruplicate a seguito della guerra in Medio Oriente”, fa sapere David Rees, Senior Emerging Markets Economist Schroders, che si interroga se questo evento possa spingere l’economia globale verso la stagflazione.

SE IL PETROLIO BRENT VA A 120 DOLLARI IL BARILE


L’economista, in uno scenario che ipotizza un aumento dei prezzi delle materie prime, immagina il petrolio Brent spingersi a 120 dollari al barile a seguito dei tagli alla produzione da parte dei paesi esportatori inclusi nel cosiddetto Opec+: l'economia globale andrebbe in stagflazione rispetto allo scenario di base previsto da Schroders. “Con l'aumento dei prezzi delle materie prime ci sarebbe una riaccelerazione dell'inflazione che, a cascata, comporterebbe l'aumento dei salari e dei prezzi dei beni di consumo per l’irrigidimento del mercato del lavoro a livello globale. Una dinamica che costringerebbe le banche centrali verso ulteriori rialzi dei tassi”, spiega Rees.

POSSIBILE ESITO STAGFLATTIVO


L’inflazione risulterebbe più radicata nell’economia, determinando un ritardo nell’eventuale passaggio al taglio dei tassi fino alla fine del 2024, e la politica monetaria risulterebbe più restrittiva anche per tutto il prossimo anno. Questo, sommato all’aumento dei prezzi al consumo per famiglie e imprese, porterebbe a un rallentamento della crescita, con un esito stagflattivo.

IL FATTORE CHIAVE PER IL RALLENTAMENTO DEL CAROVITA


“Non va trascurato che, nell’ultimo anno, il fattore chiave per il rallentamento del carovita è da ricercarsi nella riduzione degli effetti dei passati aumenti dei prezzi dell’energia, scatenati dall'invasione russa dell'Ucraina a inizio 2022. Una tendenza che, tuttavia, aveva già iniziato a invertirsi prima della crisi in Israele con l'inflazione energetica del G7 che è passata dal -8% annuo di luglio al -1% annuo di agosto”, riferisce Rees. Se anche i prezzi del petrolio rimanessero intorno agli attuali 91 dollari al barile, l'inflazione della componente energetica tornerebbe a essere positiva fino alla prossima estate, prima di svanire nella seconda metà del 2024

L’INFLAZIONE PUO’ DIVENTARE PIÙ ‘VISCHIOSA’ PIÙ A LUNGO


L’inflazione può pertanto diventare più “vischiosa” più a lungo anche perché, in questa fase, il mercato del lavoro è rigido al punto che qualsiasi aumento sostenuto dai prezzi al consumo può ripercuotersi sugli accordi salariali. Basta osservare la crescita delle buste paga di settembre negli Stati Uniti e il nuovo minimo storico del tasso di disoccupazione nell'Eurozona ad agosto.

LA FED POTREBBE PROCEDERE CON UN ALTRO RIALZO DEI TASSI


“A questo punto non si può escludere che la Fed, che ha già aperto il dibattito su un ultimo rialzo dei tassi nel suo recente “dot-plot”, possa propendere per un ulteriore rialzo a novembre se i prezzi del petrolio continueranno a salire. Tuttavia, non va nemmeno sopravvalutata la minaccia immediata di un aumento dell’inflazione complessiva a causa dell’incremento dei prezzi dell'energia. Dalle nostre analisi, emerge che i prezzi dell'energia rappresentano solo l'1,7% dell'indice dei prezzi al consumo “core” con un impatto quindi minimo di un aumento dei prezzi del petrolio sull'inflazione sottostante”, conclude il Senior Emerging Markets Economist di Schroders.

 

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