Piazza Affari
Opportunità azioni italiane, ancora sottovalutate e meno esposte al rischio Btp
Nonostante un buon 2023 Piazza Affari resta in forte ritardo su un orizzonte di lungo termine e ha spazio per recuperare molto, mentre i rischi sul debito pesano meno che in passato e sono concentrati sui titoli di Stato
di Stefano Caratelli 13 Novembre 2023 08:02
La Borsa di Milano quest’anno ha fatto decisamente meglio delle altre europee e nonostante gli alti e bassi degli ultimi mesi conserva un rialzo non lontano dal 20% da inizio anno, contro un modesto 5% dell’azionario europeo misurato dall’indice Stoxx 600. Ma resta l’unica tra quelle dei paesi sviluppati, e non solo, a non aver recuperato i livelli pre-grande crisi finanziaria, quando l’indice Ftse Mib viaggiava vicino ai 40.000 punti contro i 28.800 attuali, e nemmeno quelli pre-bolla di Internet, quando aveva sfiorato i 50.000. A influire sulla performance di lungo periodo sono sicuramente le banche, che pesano molto sull’indice, e che sono state duramente colpite prima dalla crisi di Lehman e poi ancor più da quella del debito sovrano, dato l’ammontare importante nei loro bilanci di titoli di Stato. Ora su questo fronte torna qualche tensione, in attesa del verdetto di Moody’s sul merito di credito italiano, ma azionario e banche sembrano ben impermeabilizzati.
Un downgrade di Moody’s secondo alcune stime potrebbe spingere lo spread tra Btp e Bund tedeschi in area 250 punti, dai 180-190 attuali. Ma questo non scalfisce l’appeal delle azioni italiane, che secondo i calcoli di Reuters, in termini di rapporto tra prezzi e utili, sono ancora a sconto di circa il 50% rispetto all’azionario globale, ai massimi dal 1988. Ovviamente le valutazioni basate sul price/earning a 12 mesi possono essere ingannevoli e segnalare anche sopravvalutazioni. Ma l’anno di riferimento della stima di sottovalutazione è significativo, infatti nel 1988 Piazza Affari toccò il picco di una corsa di cinque anni, che portò la capitalizzazione a quintuplicare, sulla spinta di una serie di fattori unici: l’abbattimento dell’inflazione dal 20% a poco sopra il 4%, un boom economico che consentì il sorpasso della Gran Bretagna portando l’Italia al quarto posto nella classifica del PIL globale, dietro solo a USA, Giappone e Germania Ovest, e soprattutto l’arrivo dei fondi comuni di investimento nel 1984, che aprì le porte dell’investimento azionario alla grande massa dei risparmiatori.
Ma allora come oggi c’era il macigno del debito pubblico in crescita. Il mancato pagamento di alcune scadenze di un gruppo di Stato, l’Efim, insinuò nei mercati il dubbio che l’Italia non potesse onorare neanche i Btp, innescando una spirale che portò alla svalutazione del 30% della lira. Dalla crisi seguita nel 1992-95 si uscì con l’ingresso nell’euro, ma poi lo stesso problema tornò nel 2011 con la crisi del debito sovrano europeo, e gli strascichi con alti e bassi arrivano fino a oggi. Ma le banche italiane di oggi non sono più come allora le vittime designate, hanno fatto una profonda e dolorosa pulizia, sono tornate (molto) redditizie, hanno un invidiabile cuscinetto di riserve grazie anche alla decisione di schivare la tassa sugli extra profitti, e nel solo terzo trimestre hanno quasi raddoppiato gli utili al record di 16,5 miliardi.
Il che vuol dire, come rileva la stessa Reuters, che non sono più vulnerabili a turbolenze che dovessero investire i Btp, e che il forte sconto a cui vengono valutate le azioni italiane potrebbero rappresentare un’opportunità di acquisto in un panorama azionario globale dominato da molte incognite. Più in generale, gli investitori dovrebbero riflettere sui rischi di una corsa ai titoli di Stato a livello globale, attirati da rendimenti che sembrano competitivi con quelli delle azioni dopo vent’anni in cui non c’era storia. Un episodio recentissimo e poco riportato sui media italiani mostra infatti un’altra vulnerabilità specifica del mercato del debito, dovuta alla sua concentrazione in poche e molto grandi mani. La Cina ad esempio detiene circa 6.000 miliardi di dollari di Treasury USA, e la Icbc, unica banca cinese ovviamente statale autorizzata a operare sul mercato del debito americano è stata oggetto proprio a New York di un attacco ransomware, con turbolenze arrivate fino a Londra.
Alla fine l’attacco su cui sembra siano state trovate impronte digitali russe è stato sventato. Ma il fatto che abbia praticamente coinciso con l’emissione da parte del Tesoro USA di Treasury a 30 anni per 24 miliardi di dollari ha causato turbolenze e vendite giudicate anomale sulla parte lunga delle scadenze dei titoli di Stato americani. I Treasury sono diffusi in moltissimi portafogli in giro per il mondo, ma sono ‘fisicamente’ concentrati nelle grandi banche depositarie, come BNY Mellon, che infatti si è attivata con l’aiuto di UBS per riportare la calma, tagliando i collegamenti con Icbc e utilizzando l’estensione dell’operatività di Fedwire, la piattaforma per la gestione in tempo reale dei pagamenti gestita dalla Federal Reserve. Allarme rientrato, ma come osserva il FT il caso ha messo in evidenza la vulnerabilità del mercato dei Treasury USA, il più grande del mondo, da cui dipende la fissazione dei prezzi di un’infinità di asset in giro per il mondo.
La lezione finale per l’investitore è che rendimenti tornati appetibili fanno dei titoli di Stato, che siano Btp o Treasury, di nuovo un complemento importante per l’equilibrio del portafoglio, ma non un’alternativa alle azioni, che restano il vero generatore di reddito a lungo termine. E se sono pesantemente sottovalutare come quelle italiane, soprattutto le banche, è un motivo in più per non trascurarle.
POSSIBILI DOWNGRADE NON SCALFISCONO L’APPEAL DELLE AZIONI ITALIANE
Un downgrade di Moody’s secondo alcune stime potrebbe spingere lo spread tra Btp e Bund tedeschi in area 250 punti, dai 180-190 attuali. Ma questo non scalfisce l’appeal delle azioni italiane, che secondo i calcoli di Reuters, in termini di rapporto tra prezzi e utili, sono ancora a sconto di circa il 50% rispetto all’azionario globale, ai massimi dal 1988. Ovviamente le valutazioni basate sul price/earning a 12 mesi possono essere ingannevoli e segnalare anche sopravvalutazioni. Ma l’anno di riferimento della stima di sottovalutazione è significativo, infatti nel 1988 Piazza Affari toccò il picco di una corsa di cinque anni, che portò la capitalizzazione a quintuplicare, sulla spinta di una serie di fattori unici: l’abbattimento dell’inflazione dal 20% a poco sopra il 4%, un boom economico che consentì il sorpasso della Gran Bretagna portando l’Italia al quarto posto nella classifica del PIL globale, dietro solo a USA, Giappone e Germania Ovest, e soprattutto l’arrivo dei fondi comuni di investimento nel 1984, che aprì le porte dell’investimento azionario alla grande massa dei risparmiatori.
DA DECENNI SULL’ITALIA PESA IL MACIGNO DEL DEBITO
Ma allora come oggi c’era il macigno del debito pubblico in crescita. Il mancato pagamento di alcune scadenze di un gruppo di Stato, l’Efim, insinuò nei mercati il dubbio che l’Italia non potesse onorare neanche i Btp, innescando una spirale che portò alla svalutazione del 30% della lira. Dalla crisi seguita nel 1992-95 si uscì con l’ingresso nell’euro, ma poi lo stesso problema tornò nel 2011 con la crisi del debito sovrano europeo, e gli strascichi con alti e bassi arrivano fino a oggi. Ma le banche italiane di oggi non sono più come allora le vittime designate, hanno fatto una profonda e dolorosa pulizia, sono tornate (molto) redditizie, hanno un invidiabile cuscinetto di riserve grazie anche alla decisione di schivare la tassa sugli extra profitti, e nel solo terzo trimestre hanno quasi raddoppiato gli utili al record di 16,5 miliardi.
BTP PIÙ ESPOSTI A TURBOLENZE, MA ANCHE I TREASURY
Il che vuol dire, come rileva la stessa Reuters, che non sono più vulnerabili a turbolenze che dovessero investire i Btp, e che il forte sconto a cui vengono valutate le azioni italiane potrebbero rappresentare un’opportunità di acquisto in un panorama azionario globale dominato da molte incognite. Più in generale, gli investitori dovrebbero riflettere sui rischi di una corsa ai titoli di Stato a livello globale, attirati da rendimenti che sembrano competitivi con quelli delle azioni dopo vent’anni in cui non c’era storia. Un episodio recentissimo e poco riportato sui media italiani mostra infatti un’altra vulnerabilità specifica del mercato del debito, dovuta alla sua concentrazione in poche e molto grandi mani. La Cina ad esempio detiene circa 6.000 miliardi di dollari di Treasury USA, e la Icbc, unica banca cinese ovviamente statale autorizzata a operare sul mercato del debito americano è stata oggetto proprio a New York di un attacco ransomware, con turbolenze arrivate fino a Londra.
LA VULNERABILITÀ DEL GRANDE MERCATO DEL DEBITO USA
Alla fine l’attacco su cui sembra siano state trovate impronte digitali russe è stato sventato. Ma il fatto che abbia praticamente coinciso con l’emissione da parte del Tesoro USA di Treasury a 30 anni per 24 miliardi di dollari ha causato turbolenze e vendite giudicate anomale sulla parte lunga delle scadenze dei titoli di Stato americani. I Treasury sono diffusi in moltissimi portafogli in giro per il mondo, ma sono ‘fisicamente’ concentrati nelle grandi banche depositarie, come BNY Mellon, che infatti si è attivata con l’aiuto di UBS per riportare la calma, tagliando i collegamenti con Icbc e utilizzando l’estensione dell’operatività di Fedwire, la piattaforma per la gestione in tempo reale dei pagamenti gestita dalla Federal Reserve. Allarme rientrato, ma come osserva il FT il caso ha messo in evidenza la vulnerabilità del mercato dei Treasury USA, il più grande del mondo, da cui dipende la fissazione dei prezzi di un’infinità di asset in giro per il mondo.
BOTTOM LINE
La lezione finale per l’investitore è che rendimenti tornati appetibili fanno dei titoli di Stato, che siano Btp o Treasury, di nuovo un complemento importante per l’equilibrio del portafoglio, ma non un’alternativa alle azioni, che restano il vero generatore di reddito a lungo termine. E se sono pesantemente sottovalutare come quelle italiane, soprattutto le banche, è un motivo in più per non trascurarle.
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