Le prospettive

La forza di dollaro e commodity è anomala ma non minaccia economie e mercati

Di solito la moneta Usa si muove all’opposto di petrolio e altre materie prime, un’eccezione che dovrebbe rientrare ma il rischio è basso per i Paesi Emergenti, meno vulnerabili, e anche per l’Europa

di Stefano Caratelli 20 Maggio 2024 07:52

financialounge -  Bullettin commodity dollaro oro
Mentre Wall Street viaggia sui record storici con le altre borse globali al seguito a partire da Europa e Giappone, l’indice del dollaro contro le principali valute è in area 105, sotto i massimi recenti ma ben sopra i livelli pre-pandemia, e anche le principali commodity, dall’oro al petrolio fino al rame, esibiscono prezzi robusti, anche in questo caso sotto i picchi recenti ma ben sopra i livelli precedenti il 2020. Anche i rendimenti obbligazionari non sembrano stressati più di tanto da una Fed che fatica a trovare la quadra dei tagli, con il benchmark globale del Treasury a 10 anni che rende il 4,5%, a fronte di Fed Fund al 5,25-50%. Le correlazioni “classiche” sembrano saltate, a cominciare da quella normalmente invertita tra moneta USA e principali commodity, come da manuale nel 2014, quando la caduta del WTI da 100 a 45 dollari fece schizzare al rialzo di oltre 20 punti l’indice del biglietto verde.

UNA FORZA PARALLELA A QUELLA DELL’ECONOMIA USA


Siamo entrati in un nuovo paradigma tipo la “fine della Storia” ipotizzata (sbagliando) da Fukuyama dopo la fine della Guerra Fredda, oppure le cose sono destinate a riallinearsi presto alla normalità, con qualche inevitabile scossone sui mercati? Rispetto alle principali valute, dal 2021 il dollaro si è apprezzato di circa il 17% e solo dall’inizio di quest’anno è salito del 10% contro lo yen giapponese, di quasi l’8% sulla corona svedese e del 2% sul renminbi, nonostante lo stretto controllo della Cina sul cambio. La salita è in parallelo con quella dell’economia USA cresciuta sempre dal 2021 del 3,4% in media l’anno, più del doppio della velocità del 2006-2015 e del 70% superiore rispetto alle principali economie avanzate nei 13 anni precedenti la pandemia. La stretta antinflazione della Fed ha ovviamente aumentato l’appeal degli asset in dollari.

GLI SCONQUASSI DEL PASSATO SONO STORIA


In passato, il dollaro forte è stato un problema soprattutto per le economie emergenti, come nel caso di scuola delle Tigri Asiatiche del 1997 che vide paesi come Tailandia, Malesia e Indonesia finire impiccati dalla rivalutazione dei debiti contratti in valuta USA. E oggi il debito degli Stati emergenti corre più che mai, rendendo le valute locali vulnerabili a un dollaro forte. Ma negli ultimi anni molte cose sono cambiate. I Paesi esportatori di materie prime godono del doppio beneficio di prezzi in rialzo e del fatto che sono denominate in dollari, indubbiamente un bonus per le casse societarie e statali, soprattutto in America Latina.

ASIA PROTETTA DA NUOVO ASSETTO DELL’EXPORT


La situazione è diversa in Asia, che invece di materie prime è grande consumatrice e paga il doppio dazio dei prezzi alti e del dollaro forte. Ma nelle esportazioni che partono per il resto del mondo dallo sterminato continente contano sempre meno i beni di consumo a prezzi stracciati e sempre più le componenti tecnologiche sofisticate destinate all’Intelligenza Artificiale e alla transizione energetica, prezzate in dollari come le commodity, il che rende meno vulnerabili i conti con l’estero.

FINE DEL MONOPOLIO CINESE E CONTI IN ORDINE


A questo si aggiunge per molti Paesi, India prima di tutti, ma anche Indonesia, Vietnam, Tailandia, il beneficio della diversificazione delle forniture rispetto al monopolio cinese, imperante fino alla pandemia e poi messo in crisi dalle tensioni con gli USA e dalla guerra in Ucraina. Inoltre, sempre a favore dei Paesi Emergenti gioca il fatto che molti hanno messo i conti pubblici e privati in ordine, potendo così permettersi di aumentare molto la quota di debito emesso in valuta locale e abbattendo quella in dollari, arrivando a ben il 95% dei 3.900 miliardi di dollari di nuovo debito emesso l’anno scorso, come riporta il grafico qui sotto.

CRESCITA ANNUA DEL DEBITO DEGLI STATI EMERGENTI IN MIGLIAIA DI MILIARDI DI DOLLARI




ANCHE PER L’EUROZONA GIOCA A FAVORE


La Reuters calcola che in rapporto debito-PIL in dollari degli Stati Emergenti sia sceso vicino al 2% in Asia e appena sopra il 10% in America Latina esclusa l’Argentina. Se per l’area emergente un dollaro forte è sempre meno un pericolo, per il mondo sviluppato i pro sembrano decisamente più dei contro. È vero che il dollaro forte fa imbarcare inflazione via energia e altre materie prime, ma è sicuramente di supporto alle esportazioni, che per l’Eurozona sono vitali, soprattutto se dirette in USA, così come il turismo internazionale, altra fonte importante di reddito, e soprattutto rappresenta una solida àncora monetaria agganciata al Paese leader.

PIÙ PERICOLOSO UN DOLLARO DEBOLE


L’esperienza passata mostra invece il potenziale distruttivo dell’opposto. Nella prima parte del 2008, quando si addensava la tempesta dei subprime USA, seguita dalla crisi del debito sovrano che rischiò di far saltare l’unione monetaria, con due euro si compravano tre dollari, e non ne è seguito niente di buono. Il caro materie prime è più minaccioso del dollaro forte, ma qui la strada maestra sembra più quella di accordi mirati a livello Ue per garantirsi forniture sostenibili economicamente e sicure, come successo con il gas dopo la crisi ucraina.

Bottom line. Scommettere contro il dollaro è come scommettere contro l’America, cosa che Warren Buffett ha sempre raccomandato agli investitori di evitare. L’anomala correlazione positiva tra dollaro e commodity, dal petrolio all’oro fino al rame e tutte le altri componenti essenziali per lo sviluppo tecnologico e la transizione energetica, è probabilmente destinata a rientrare e può comunque essere governata, mentre le tensioni geopolitiche continuano a giocare a favore di un biglietto verde solido.

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