Sunday View

Tupperware, dalle feste in giardino al fallimento

La celebre azienda di contenitori in plastica ha annunciato il ricorso all’amministrazione straordinaria dopo un lungo periodo di crisi. Come si è arrivati a questo, e cosa si prospetta ora per il brand?

di Lorenzo Cleopazzo 22 Settembre 2024 10:00

financialounge -  fallimento chapter 11 sunday view Tupperware
Se lo osservassimo da vicino, se riuscissimo a penetrare quella barriera scura che si frappone tra il nostro sguardo e ciò che c’è al suo interno, probabilmente lo vedremmo: vedremmo un moto circolare, un turbinio di onde elettromagnetiche che riscaldano ciò che circonda la scena.

Sappiamo benissimo cos’è, non solo perché lo stiamo guardando, ma anche perché abbiamo scelto non una, ma ben due parole per dargli un nome. Il problema è che in queste righe manca un contesto, che è determinante per capire di cosa stiamo parlando. Sì perché se dicessimo che siamo nello spazio, allora potremmo essere di fronte a un buco nero; ma se invece fossimo in una cucina, allora staremmo guardando un forno microonde. Solo che dal primo niente di ciò che entra può uscire, mentre dal secondo tutto ciò che entra deve necessariamente uscire. Altrimenti cosa è stato messo lì a fare? Se poi parliamo del microonde di un ufficio, meta di pellegrinaggio di tutti i lavoratori in pausa pranzo, allora al contesto si aggiunge anche un altro elemento fondamentale: la schiscetta. Probabilmente, vista la sua utilità, ci siamo spesso ritrovati a benedirla, ma quante volte abbiamo verificato di che marca fosse? Magari l’abbiamo anche chiamata erroneamente “tupperware”, pensando che fosse una parola di uso comune, e senza considerare il marchio da cui proviene questo nome. Marchio che, tra l’altro, da qualche tempo tenta di salvarsi dal fallimento, e che è diventato uno dei protagonisti della newsletter di questa settimana.

Abbiamo inserito la nostra schiscetta? Allora impostiamo il timer e prepariamoci a gustare questo Sunday View bello caldo.

Bon apetit!

CHAPTER 11


È la legge americana sui fallimenti, che permette alle aziende di avvalersi di una protezione speciale in caso di grave crisi.

Ecco, Tupperware ha richiesto questa protezione.

La famosa azienda di contenitori di plastica è in affanno da qualche tempo, complici un mercato diventato molto duro e un contesto macro complesso da decifrare. Eppure il marchio aveva saputo rinnovarsi più volte, da quando nel 1946 Earl Tupper la fondò: il boom si ebbe nei primi anni ’50, quando la plastica conobbe la sua enorme fortuna e l’azienda proponeva un sistema di vendite porta a porta, andando in soccorso di tutte le sciure Maria d’America che avevano cucinato per un esercito senza però sapere dove riporre il cibo avanzato. Questo sistema “per casalinghe” si estese e mutò, diventando anche un sistema “dalle casalinghe”: si tratta di quello che chiamarono Home Party Plan, una strategia di marketing con cui la Tupperware chiedeva alle donne di organizzare delle piccole festicciole in casa, dove venivano utilizzati – e quindi presentati – i prodotti dell’azienda, con vicine, colleghe, amiche e parenti che poi finivano per diventare clienti.

Il modello s’incrina quando alla Tupperware – fino ad allora sostanzialmente monopolista – si affiancano sempre più competitors e sempre più a buon mercato, lasciando sempre meno spazio a quello che era il gigante del settore. Da qui alla chapter 11 il passo è fin troppo breve, tranne che per una rapida parentesi molto positiva durante i lockdown, quando le famiglie si sono ritrovate in casa a cucinare e a gestire gli avanzi, e la Tupperware si è ritrovata con un rialzo delle vendite e un aumento del valore in Borsa. Per snocciolare qualche numero, nell’ottobre 2020 l’azienda aveva annunciato guadagni per 34,4 milioni di dollari nel quadrimestre passato, quadruplicando i profitti dello stesso periodo dell’anno precedente. Bei numeri, certo, ma nulla che desse la spinta necessaria all’azienda per rinsaldarsi nel lungo periodo. Un po’ com’è successo con la startup indiana Byju, di cui abbiamo parlato in un Sunday View di fine luglio.

L’insicurezza di Tupperware, nonostante la storicità del marchio, si traduce in una caduta che non fa poi così rumore. Non più, quantomeno, visto come è stata assorbita dal fermento che le si è creata attorno. Quasi come se ce lo si aspettasse, quasi come una comunità che ha ormai sancito tacitamente che certe figure non hanno più il fascino di un tempo. Un po’ come quei simpaticoni che qualche tempo fa pretendevano di insegnare le virtù a pagamento. Avete capito di chi stiamo parlando?

DALLE STELLE ALLE STALLE


Atene, V secolo a.C., prima che borse firmate e macchinoni di lusso facessero tendenza, l’indice di benessere era mandare i propri figli a studiare dai Sofisti. Queste figure fecero man mano la loro comparsa nell’Agorà ateniese predicando l’arte della dialettica, uno strumento necessario per chiunque aspirasse a diventare un uomo politico o un mercante di spessore. Si diceva che fossero in grado di insegnare a padroneggiare le parole in una maniera tale da non poter mai apparire inferiori in un dibattito, argomentando a proprio favore qualsiasi questione. Questa visione prendeva le mosse dalla frase più conosciuta del sofista più celebre: Protagora, che disse “L’uomo è misura di tutte le cose”. Tradotto: è tutto relativo, quindi è tutto argomentabile. Ora immaginiamo il contesto sociale di Atene, dove la massima aspirazione era entrare a far parte delle assemblee democratiche. Una visione simile ebbe successo? Eccome, così come i pensatori che la insegnavano. Però c’è un però, e si chiama Socrate. Il filosofone per antonomasia aveva iniziato a minare questo relativismo: per lui esisteva un solo Bene, una sola Giustizia da perseguire, e le maiuscole non sono casuali. Era inammissibile che si potesse imparare a difendere un’argomentazione soggettiva – quindi potenzialmente errata –, per di più a pagamento. Il risultato? A mano a mano, il pensiero di Socrate entrò sempre più nel contesto ateniese, sancendo la fine della fortuna dei sofisti.

NEXT CHAPTER...?


Il modello dei sofisti aveva un successo incredibile, proprio come quello della Tupperware. Entrambi hanno sfruttato un contesto favorevole per crearsi un proprio spazio di manovra e diventarne gli unici a sfruttarlo. Erano ovunque, gli insegnamenti dei sofisti nelle case degli ateniesi e i contenitori di plastica in quelle degli americani. Sembrava che nulla potesse scalfire questo sistema, tranne lo stesso contesto in cui si è sviluppato: i sofisti furono cacciati dagli ateniesi, mentre la Tupperware fu scavalcata dal mercato che aveva creato. E facendo finta di dimenticarci che tra i protagonisti di questo Sunday View ballano due millenni e oltre di storia, di ignorare che i primi vendevano conoscenza e i secondi contenitori di plastica, l’unica differenza tra i due è che la Tupperware si è potuta affidare alla tutela della legge americana. Oggi, infatti, l’azienda si è ritagliata uno spazio di serenità – per modo di dire – all’interno del sistema americano, ma dovrà rendere conto al tribunale di una ristrutturazione sostanziale della società entro tre mesi. Ce la farà? O forse dovrebbe organizzare di nuovo i party nel giardino della sciura Maria per ingraziarsi il giudice?

BONUS TRACK


Va detto che il pensiero dei sofisti non è tutto da buttare, anzi, è stato molto rivalutato nel tempo. Idem per i contenitori e le posate di plastica: prima demonizzati perché non ecosostenibili, e poi rivalutati dopo che abbiamo provato le forchette di legno.

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