Investimenti alternativi
I fine wine italiani vincono all'estero
Brand, rating nelle guide e family business, i tre fattori che trainano le etichette d’eccellenza Italiane, l’analisi di Nomisma Wine Monitor
di Paola Jadeluca 7 Febbraio 2025 10:28
![financialounge - economia privateconomy vini](https://www.financialounge.com/wp-content/uploads/2025/02/GettyImages-1084996534-1024x683_center_55.webp)
Notorietà del brand, riconoscimenti ottenuti nelle guide di settore e, sopratutto, l’unicità delle aziende a gestione familiare. Sono questi tre gli elementi che rendono i fine wine italiani particolarmente apprezzati all’estero, in particolare negli Usa, primo mercato d’esportazione. Lo provano i dati: in vent’anni le 18 aziende associate all’Istituto Grandi Marchi hanno raddoppiato il fatturato all’estero e raggiunto un valore aggregato di 660 miliardi di export, di cui il 55% proveniente proprio dai mercati internazionali.
E’ quanto rivela la ricerca realizzata da Nomisma Wine Monitor e commissionata dall’Istituto Grandi Marchi, Igm in occasione del ventesimo anno di vita. Igm riunisce alcune delle famiglie più prestigiose del vino italiano: parliamo della Cantina San Leornardo, 300 anni di storia, condotta oggi da Alessio Guerrieri Gonzaga; della Marchesi Antinori, con un portafoglio diversificato di tenute, anche all’estero fino gli Usa, oggi nelle mani delle tre sorelle Albiera, Allegra e Alessia; poi Carpené Malvolti, prima a produrre il Prosecco; e ancora: Col D’Orcia, venduta negli anni ‘70 alla famiglia Cinzano; la siciliana Donna Fugata fondata da Giacomo Rallo, pioniere della viticoltura di qualità e oggi giunta alla quinta generazione con Gabriella, la figlia di José che comunque con il cugino Antonio ha ancora in mano la gestione; Jermann, storica azienda goriziana, andata sposa recentemente agli Antinori che ne hanno rilevato la maggioranza. C’è poi l’umbra Lungarotti, tra Torgiano e Montefalco, gestita da Chiara Lungarotti, la regina del Sagrantino; ci porta in veneto Masi Agricola, della famiglia Boscaini, che ha come presidente Sandro Boscaini, il re dell’amarone; la Tenuta San Guido, fondata dal Marchese Mario Incisa della Rocchetta che all’ombra dei cipressi di Bolgheri di carducciana memoria ha stupito il mondo inventando il primo Supertuscan, il Sassicaia; strada diversa quella intrapresa dalle toscane Tenute Folonori con diverse proprietà tra il Chianti e Montalcino; si torna al nord, in Veneto, con un altro campione dell’Amarone, Pio Cesare; in Puglia, tra le colline della Murgia e il Mar adriatico, si stendono i filari dell’azienda Rivera che con Sebastiano e Marco de Corato è giunta alla quarta generazione; su un’altra isola, la Sardegna, a Serdiana, nel sud, ha fondato il suo brand la famiglia Argiolas, che ha salutato l’ingresso nel settore marketing di Valentina, terza generazione.
Aziende saldamente in mano alla famiglia, di generazione in generazione. Quello che spesso nelle analisi economico-finanziarie stato sempre considerato un limite, il business di famiglia, rispetto ai big dell’enologia mondiale, ecco che invece tra gli investitori e appassionati appare come un grande pregio: l’unicita delle aziende a gestione famigliare è, secondo il report di Nomisma Wine Monitor, l’elemento che risulta particolarmente rilevante in modo specifico per i millennials, con il 16% di appassionati che lo considera un aspetto determinante, rispetto all’11% della media generale.
L’importanza del family business e dell’eredità culturale, dunque, non solo rafforza la reputazione dei fine wines italiani, ma risulta anche un fattore cruciale per attrarre i consumatori più giovani, in particolare quelli sotto i 35 anni, che apprezzano la qualità e l’autenticità dei prodotti. Una leva chiave in questa fase, caratterizzata dal boom dei vini no-alcool che riguarda proprio le fasce più giovani.
La ricerca esplora le evoluzioni e le prospettive del vino di qualità attraverso il punto di vista delle aziende associate, per poi approfondire i trend emergenti e i comportamenti di consumo dei fine wines negli Stati Uniti.
“Al di là dei dati specifici, di indubbio interesse per l’intero movimento del vino, ciò che più conta e ci lusinga è registrare la crescita del peso dei fattori immateriali legati alla percezione del nostro mondo, nella considerazione dei consumatori di mercati importanti per valori e per volumi, come ad esempio gli Stati Uniti d’America- ha commentato Piero Mastroberardino, Presidente IGM. Secondo Mastroberardino, “I vini di pregio forniscono un contributo chiave all’immagine che gli stili di vita tipici della cultura italiana occupano nella mente del pubblico. Tale immagine si lega intimamente con i valori positivi trasmessi dalla storicità, continuità, coerenza qualitativa delle imprese familiari multigenerazionali che si ergono a custodi delle radici dei propri territori”. Secondo la ricerca, il 70% del fatturato estero delle aziende associate è proveniente da mercati al di fuori dell’Unione Europea, con una crescita straordinaria nei mercati asiatici che hanno visto aumentare gli acquisti di vini oltre il 130% negli ultimi vent’anni. Gli USA si confermano il principale mercato di destinazione per i fine wines italiani, dove nonostante il contesto economico sfidante caratterizzato da inflazione e alti tassi di interesse, nel 2024 si è registrato – per il periodo gennaio-novembre e a livello complessivo di vini – un aumento delle importazioni dall’Italia del 5% in valore per i vini fermi imbottigliati e del 10% per gli spumanti, in controtendenza alla media del mercato che vede in leggera diminuzione gli acquisti dall’estero.
Lo studio ha anche analizzato i comportamenti di consumo di 2.400 consumatori statunitensi di vino (distribuiti in California, New York, New Jersey e Florida), rivelando che oggi il 30% di loro si definisce “real user” di fine wines, con una predominanza di consumatori millennials, uomini, appartenenti alla upper class e con una spiccata curiosità verso vini stranieri. Dopo quelli locali, sono i fine wines italiani i più consumati dagli americani nell’ultimo anno, grazie alla loro crescente reputazione. È cresciuta infatti la percezione dei fine wines italiani in termini di classe ed eleganza, attributi storicamente riservati ai vini francesi: nel 2024, il 27% dei consumatori americani associa questi valori ai vini italiani, in crescita rispetto al 20% emerso dalla ricerca analoga elaborata nel 2017 da Nomisma Wine Monitor per IGM. Ulteriore dato particolarmente promettente riguarda i non consumatori di fine wines italiani: il 76% di loro si dichiara interessato a provarli, sottolineando le opportunità per ulteriori espansioni di mercato.
“Le potenzialità di crescita sul mercato americano per i fine wines italiani sono concrete. Non solo perché si assiste da tempo ad una premiumization dei consumi di vino, ma anche perché il 44% dei consumatori statunitensi intervistati prevede di aumentarne l’acquisto nei prossimi tre anni, contro un 50% che ritiene di mantenerli invariati e solo un 6% che invece pensa di diminuirli”, evidenzia Denis Pantini, Responsabile Nomisma Wine Monitor.
Il consumatore di fine wines italiani si distingue per un forte legame con l’Italia, che si esprime attraverso origini italiane o esperienze dirette nel paese, come visite recenti. Questo elemento gioca un ruolo fondamentale nella valorizzazione dei fine wines italiani sul mercato statunitense.
PASSAGGIO GENERAZIONALE
E’ quanto rivela la ricerca realizzata da Nomisma Wine Monitor e commissionata dall’Istituto Grandi Marchi, Igm in occasione del ventesimo anno di vita. Igm riunisce alcune delle famiglie più prestigiose del vino italiano: parliamo della Cantina San Leornardo, 300 anni di storia, condotta oggi da Alessio Guerrieri Gonzaga; della Marchesi Antinori, con un portafoglio diversificato di tenute, anche all’estero fino gli Usa, oggi nelle mani delle tre sorelle Albiera, Allegra e Alessia; poi Carpené Malvolti, prima a produrre il Prosecco; e ancora: Col D’Orcia, venduta negli anni ‘70 alla famiglia Cinzano; la siciliana Donna Fugata fondata da Giacomo Rallo, pioniere della viticoltura di qualità e oggi giunta alla quinta generazione con Gabriella, la figlia di José che comunque con il cugino Antonio ha ancora in mano la gestione; Jermann, storica azienda goriziana, andata sposa recentemente agli Antinori che ne hanno rilevato la maggioranza. C’è poi l’umbra Lungarotti, tra Torgiano e Montefalco, gestita da Chiara Lungarotti, la regina del Sagrantino; ci porta in veneto Masi Agricola, della famiglia Boscaini, che ha come presidente Sandro Boscaini, il re dell’amarone; la Tenuta San Guido, fondata dal Marchese Mario Incisa della Rocchetta che all’ombra dei cipressi di Bolgheri di carducciana memoria ha stupito il mondo inventando il primo Supertuscan, il Sassicaia; strada diversa quella intrapresa dalle toscane Tenute Folonori con diverse proprietà tra il Chianti e Montalcino; si torna al nord, in Veneto, con un altro campione dell’Amarone, Pio Cesare; in Puglia, tra le colline della Murgia e il Mar adriatico, si stendono i filari dell’azienda Rivera che con Sebastiano e Marco de Corato è giunta alla quarta generazione; su un’altra isola, la Sardegna, a Serdiana, nel sud, ha fondato il suo brand la famiglia Argiolas, che ha salutato l’ingresso nel settore marketing di Valentina, terza generazione.
HERITAGE E UNICITÀ I FATTORI CHIAVE
Aziende saldamente in mano alla famiglia, di generazione in generazione. Quello che spesso nelle analisi economico-finanziarie stato sempre considerato un limite, il business di famiglia, rispetto ai big dell’enologia mondiale, ecco che invece tra gli investitori e appassionati appare come un grande pregio: l’unicita delle aziende a gestione famigliare è, secondo il report di Nomisma Wine Monitor, l’elemento che risulta particolarmente rilevante in modo specifico per i millennials, con il 16% di appassionati che lo considera un aspetto determinante, rispetto all’11% della media generale.
L’importanza del family business e dell’eredità culturale, dunque, non solo rafforza la reputazione dei fine wines italiani, ma risulta anche un fattore cruciale per attrarre i consumatori più giovani, in particolare quelli sotto i 35 anni, che apprezzano la qualità e l’autenticità dei prodotti. Una leva chiave in questa fase, caratterizzata dal boom dei vini no-alcool che riguarda proprio le fasce più giovani.
La ricerca esplora le evoluzioni e le prospettive del vino di qualità attraverso il punto di vista delle aziende associate, per poi approfondire i trend emergenti e i comportamenti di consumo dei fine wines negli Stati Uniti.
LO STILE DI VITA E IL LEGAME CON L’ITALIA
“Al di là dei dati specifici, di indubbio interesse per l’intero movimento del vino, ciò che più conta e ci lusinga è registrare la crescita del peso dei fattori immateriali legati alla percezione del nostro mondo, nella considerazione dei consumatori di mercati importanti per valori e per volumi, come ad esempio gli Stati Uniti d’America- ha commentato Piero Mastroberardino, Presidente IGM. Secondo Mastroberardino, “I vini di pregio forniscono un contributo chiave all’immagine che gli stili di vita tipici della cultura italiana occupano nella mente del pubblico. Tale immagine si lega intimamente con i valori positivi trasmessi dalla storicità, continuità, coerenza qualitativa delle imprese familiari multigenerazionali che si ergono a custodi delle radici dei propri territori”. Secondo la ricerca, il 70% del fatturato estero delle aziende associate è proveniente da mercati al di fuori dell’Unione Europea, con una crescita straordinaria nei mercati asiatici che hanno visto aumentare gli acquisti di vini oltre il 130% negli ultimi vent’anni. Gli USA si confermano il principale mercato di destinazione per i fine wines italiani, dove nonostante il contesto economico sfidante caratterizzato da inflazione e alti tassi di interesse, nel 2024 si è registrato – per il periodo gennaio-novembre e a livello complessivo di vini – un aumento delle importazioni dall’Italia del 5% in valore per i vini fermi imbottigliati e del 10% per gli spumanti, in controtendenza alla media del mercato che vede in leggera diminuzione gli acquisti dall’estero.
IL GUSTO DEI MILLENNIAL
Lo studio ha anche analizzato i comportamenti di consumo di 2.400 consumatori statunitensi di vino (distribuiti in California, New York, New Jersey e Florida), rivelando che oggi il 30% di loro si definisce “real user” di fine wines, con una predominanza di consumatori millennials, uomini, appartenenti alla upper class e con una spiccata curiosità verso vini stranieri. Dopo quelli locali, sono i fine wines italiani i più consumati dagli americani nell’ultimo anno, grazie alla loro crescente reputazione. È cresciuta infatti la percezione dei fine wines italiani in termini di classe ed eleganza, attributi storicamente riservati ai vini francesi: nel 2024, il 27% dei consumatori americani associa questi valori ai vini italiani, in crescita rispetto al 20% emerso dalla ricerca analoga elaborata nel 2017 da Nomisma Wine Monitor per IGM. Ulteriore dato particolarmente promettente riguarda i non consumatori di fine wines italiani: il 76% di loro si dichiara interessato a provarli, sottolineando le opportunità per ulteriori espansioni di mercato.
“Le potenzialità di crescita sul mercato americano per i fine wines italiani sono concrete. Non solo perché si assiste da tempo ad una premiumization dei consumi di vino, ma anche perché il 44% dei consumatori statunitensi intervistati prevede di aumentarne l’acquisto nei prossimi tre anni, contro un 50% che ritiene di mantenerli invariati e solo un 6% che invece pensa di diminuirli”, evidenzia Denis Pantini, Responsabile Nomisma Wine Monitor.
Il consumatore di fine wines italiani si distingue per un forte legame con l’Italia, che si esprime attraverso origini italiane o esperienze dirette nel paese, come visite recenti. Questo elemento gioca un ruolo fondamentale nella valorizzazione dei fine wines italiani sul mercato statunitense.
Trending