Weekly Bulletin
Mercati nervosi? Non farsi impaurire e fidarsi della vista lunga di Trump (e Powell)
Il Presidente guarda a medio-lungo termine ed è disposto ad accettare qualche sofferenza a breve con riflessi anche su Wall Street per garantire crescita solida senza inflazione. E la Fed lo accompagna
di Stefano Caratelli 17 Marzo 2025 08:08

Ci sono titoli dei media secondo cui Trump sta mandando Wall Street “a picco” con le sue giravolte sui dazi e le politiche draconiane di tagli all’apparato governativo, condite dalla stretta all’immigrazione, che porteranno inflazione, meno crescita e forse addirittura recessione. È vero che dopo il Nasdaq anche l’S&P 500 è entrato di pochissimo in territorio correzione, vale a dire sotto di oltre il 10% rispetto ai massimi (record) recenti, che la fiducia dei consumatori USA si è incrinata, e che dal mercato del lavoro arrivano segni di debolezza, mentre in Europa i listini tengono grazie alla spesa massiccia in difesa in arrivo insieme alla spinta all’indebitamento pubblico in Germania. Ma basta perché gli investitori corrano a (s)vendere America invece di approfittare di prezzi azionari un po’ più accettabili? Anche perché lo storno è praticamente tutto da attribuire ai Magnifici 7, mentre il grosso del mercato ha tenuto.
Una correzione non prepara per forza un mercato Orso, lo ha fatto solo una volta su quattro dal dopoguerra, e una sola, quella da Covid, che è stata rapida come l’attuale. Trump non sembra preoccupato, né da Wall Street né dalla parola recessione che ricorre sui media. Nel primo mandato era concentrato sulle prospettive di breve-medio termine e sulla rielezione, che non è arrivata per la gestione inadeguata della pandemia. Oggi invece, visto che non può essere eletto la terza volta, punta a lasciare il segno e entrare nella Storia, a cui consegnare un’America alleggerita dal peso del debito e dall’onere di rifinanziarlo a costi sempre più alti, protagonista globale degli scambi commerciali e dell’innovazione tecnologica, con un effetto benessere duraturo e non dipendente dallo stimolo fiscale. Una visione illustrata dal segretario al Tesoro Scott Bessent con l’invito agli investitori di passare dalla nozione di “Trump put” vale a dire protezione dai ribassi, a quella di “Trump call”, una scommessa sui rialzi futuri.
Per raggiungere l’obiettivo l’inquilino della Casa Bianca sembra disposto a pagare il prezzo di qualche sofferenza di mercati ed economia, forse anche una recessione tecnica, vale a dire un paio di trimestri di Pil negativo per un paio di decimali, di cui per ora non si vedono segnali. Gli economisti di Morgan Stanley e Goldman sono propensi a dargli credito, ma qualuno, come Jon Sindreu sul WSJ, insinua che potrebbe fare lo stesso errore di Hoover, il presidente travolto dalla Grande Depressione convinto che l’economia si sarebbe aggiustata da sola. Forse è più calzante il paragone con un altro presidente passato alla Storia per ragioni opposte, Ronald Reagan, che nel primo mandato ce la mise tutta per uscire dalla stagflazione, e nel secondo riposizionò con successo gli USA al centro del mondo, vincendo la Guerra Fredda, anche se molti in Europa lo dipingevano come un rozzo cowboy.
Reagan fece ampio ricorso al debito, che al suo arrivo viaggiava ai minimi rispetto al Pil, prima per finanziare i tagli alle tasse e la deregulation e far ripartire l’economia, e poi per sostenere la spesa militare mettendo alle corde un’URSS alla rincorsa. Oggi l’indebitamento americano sul PIL viaggia a tre/quattro volte i livelli di allora, farlo salire ancora alimenterebbe l’inflazione, spingerebbe al rialzo tassi e rendimenti dei Treasury, e alla fine potrebbe minare l’egemonia del dollaro. L’apparato governativo è cresciuto troppo e ha bisogno di una cura dimagrante. Il motore della crescita va riposizionato dal settore pubblico, che ha alimentato per oltre la metà gli utili societari tra il 2022 e il 2024 a beneficio soprattutto dei Big Tech, al privato, da allargare ben oltre i confini dei Magnifici 7.
La grande base produttiva americana è fatta di imprese che esportano ancora poco rispetto al potenziale globale, in un quadro che vede la Cina sempre in posizione di leadership come singolo paese nonostante l’economia in frenata e gli USA in deficit commerciale rispetto all’Eurozona nonostante il forte differenziale di crescita a favore dei primi. A differenza del primo mandato, la linea di Trump di accettare qualche sacrificio a breve in cambio di risultati importanti a medio lungo sembra la stessa della Fed di Powell, disposta a tenere i tassi forse un po’ più alti del necessario e un po’ più a lungo per essere sicura di aver riportato stabilmente l’inflazione sotto controllo anche a fronte dell’impatto dei dazi.
Bottom line. Per gli investitori non è il momento di correre a vendere ma dell’opportunismo tattico e della fiducia nel lungo termine. Il premio di qualche sacrificio, soprattutto emotivo, può arrivare sotto forma di tassi e inflazione più bassi, utili aziendali in recupero su una base più ampia, il tutto cifrato in valutazioni azionarie gratificanti.
TRUMP HA OBIETTIVI AMBIZIOSI PER IL SECONDO MANDATO
Una correzione non prepara per forza un mercato Orso, lo ha fatto solo una volta su quattro dal dopoguerra, e una sola, quella da Covid, che è stata rapida come l’attuale. Trump non sembra preoccupato, né da Wall Street né dalla parola recessione che ricorre sui media. Nel primo mandato era concentrato sulle prospettive di breve-medio termine e sulla rielezione, che non è arrivata per la gestione inadeguata della pandemia. Oggi invece, visto che non può essere eletto la terza volta, punta a lasciare il segno e entrare nella Storia, a cui consegnare un’America alleggerita dal peso del debito e dall’onere di rifinanziarlo a costi sempre più alti, protagonista globale degli scambi commerciali e dell’innovazione tecnologica, con un effetto benessere duraturo e non dipendente dallo stimolo fiscale. Una visione illustrata dal segretario al Tesoro Scott Bessent con l’invito agli investitori di passare dalla nozione di “Trump put” vale a dire protezione dai ribassi, a quella di “Trump call”, una scommessa sui rialzi futuri.
COME HOOVER? SOMIGLIA PIÙ A REAGAN
Per raggiungere l’obiettivo l’inquilino della Casa Bianca sembra disposto a pagare il prezzo di qualche sofferenza di mercati ed economia, forse anche una recessione tecnica, vale a dire un paio di trimestri di Pil negativo per un paio di decimali, di cui per ora non si vedono segnali. Gli economisti di Morgan Stanley e Goldman sono propensi a dargli credito, ma qualuno, come Jon Sindreu sul WSJ, insinua che potrebbe fare lo stesso errore di Hoover, il presidente travolto dalla Grande Depressione convinto che l’economia si sarebbe aggiustata da sola. Forse è più calzante il paragone con un altro presidente passato alla Storia per ragioni opposte, Ronald Reagan, che nel primo mandato ce la mise tutta per uscire dalla stagflazione, e nel secondo riposizionò con successo gli USA al centro del mondo, vincendo la Guerra Fredda, anche se molti in Europa lo dipingevano come un rozzo cowboy.
SPOSTARE IL PESO DAL SETTORE PUBBLICO AL PRIVATO
Reagan fece ampio ricorso al debito, che al suo arrivo viaggiava ai minimi rispetto al Pil, prima per finanziare i tagli alle tasse e la deregulation e far ripartire l’economia, e poi per sostenere la spesa militare mettendo alle corde un’URSS alla rincorsa. Oggi l’indebitamento americano sul PIL viaggia a tre/quattro volte i livelli di allora, farlo salire ancora alimenterebbe l’inflazione, spingerebbe al rialzo tassi e rendimenti dei Treasury, e alla fine potrebbe minare l’egemonia del dollaro. L’apparato governativo è cresciuto troppo e ha bisogno di una cura dimagrante. Il motore della crescita va riposizionato dal settore pubblico, che ha alimentato per oltre la metà gli utili societari tra il 2022 e il 2024 a beneficio soprattutto dei Big Tech, al privato, da allargare ben oltre i confini dei Magnifici 7.
UNA LINEA SIMILE A QUELLA DELLA FED DI POWELL
La grande base produttiva americana è fatta di imprese che esportano ancora poco rispetto al potenziale globale, in un quadro che vede la Cina sempre in posizione di leadership come singolo paese nonostante l’economia in frenata e gli USA in deficit commerciale rispetto all’Eurozona nonostante il forte differenziale di crescita a favore dei primi. A differenza del primo mandato, la linea di Trump di accettare qualche sacrificio a breve in cambio di risultati importanti a medio lungo sembra la stessa della Fed di Powell, disposta a tenere i tassi forse un po’ più alti del necessario e un po’ più a lungo per essere sicura di aver riportato stabilmente l’inflazione sotto controllo anche a fronte dell’impatto dei dazi.
Bottom line. Per gli investitori non è il momento di correre a vendere ma dell’opportunismo tattico e della fiducia nel lungo termine. Il premio di qualche sacrificio, soprattutto emotivo, può arrivare sotto forma di tassi e inflazione più bassi, utili aziendali in recupero su una base più ampia, il tutto cifrato in valutazioni azionarie gratificanti.
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