Sunday View
Parole, numeri, valori: perché essere ottimisti tra Usa ed Europa
Dai dazi di Trump, agli equilibri politici e diplomatici in Europa e non solo: il mondo sembra in continua tensione, ma ci sono spiragli per essere positivi
di Lorenzo Cleopazzo 30 Marzo 2025 09:30

Da uno a trentanove c’è un bel pezzo da percorrere.
C’è così tanto spazio, che dentro ci ballano ben trentasette numeri, non proprio pochissimi. Eppure, a prendere come riferimento solo il primo e il trentanovesimo elemento dell’elenco, sembra che tutte le altre cifre in mezzo si siano nascoste. Ma dove si sono cacciate? È possibile che passino inosservate proprio sotto i nostri occhi? Forse bisogna cercarle meglio, o quantomeno bisogna sapere dove cercarle.
Quest’ultima frase vale per molte più cose di quante non si creda. Sul serio: vale per le calze, disperse nel cassetto; vale per quello scontrino per fare il reso, che avevamo messo proprio in tasca e ora chissà dov’è; vale per la penna, risucchiata nello zaino; ma vale anche per tutti quei motivi che ci aiutano a essere positivi, anche se tutto attorno a noi sembra suggerire il contrario.
Quando ritroviamo calze, scontrini o penne, siamo felici nell’istante; ma quando invece riusciamo a focalizzarci su degli aspetti che ci permettono di rileggere una situazione sotto un’altra luce, forse, tutto il resto ci sembra prendere una piega differente.
Certo, detto così non basta, e non è facile partire poi subito in quarta con il Sunday View in cui parliamo di dazi e improperi verso l’Europa, ma se ci leggete da un po’ ormai sapete che ci piace chiamare in causa qualcuno che può aiutarci – per l’appunto – proprio a trovare una prospettiva differente delle cose.
Anche perché ci vuole pure un po’ di cara e rassicurante atmosfera domenicale in queste settimane così intense, no? E allora via con il nostro Sunday!
Certi amori non finiscono mai, si direbbe: fanno dei giri immensi e poi ritornano. Per esempio la grande liaison che c’è tra Trump e i suoi dazi; anzi, tra Trump e la sua America, direbbero i sostenitori del tycoon. In che senso? Nel senso che in questa nuova deluxe edition delle imposte sulle importazioni, parliamo di un bel 25% sulle auto – e sui loro componenti – che non siano prodotte, o anche solo assemblate, su suolo a stelle e strisce. Trump non vuole tanto colpire quelle aziende che hanno spostato la loro produzione fuori dagli Usa – o meglio, non solo –, ma mira a qualcosa di più grande: riportare il grosso della produzione automotive nel suo Paese. Per dirla in un altro modo, “Make America Great Again”.
È un modello vincente? Secondo Bloomberg no, piuttosto un boomerang che non farà altro che impennare i prezzi proprio per gli americani, che già negli ultimi tempi si ritrovano a fare i conti con scontrini del supermercato non proprio amichevoli.
In Europa, nella persona di Ursula von der Leyen, ci si dice profondamente rammaricati che il settore dell’auto – assieme anche a quello farmaceutico e del legname – venga così tassato, andando a colpire in primis lo sviluppo e i consumatori su entrambe le sponde dell’oceano. Tra i banchi dell’Unione, poi, non c’è proprio serenità, visti anche i vari ordini del giorno divisi tra la questione americana e il conflitto in Ucraina. All’interno dei cosiddetti “Volenterosi” – 37 tra Paesi europei, del Commonwealth e dell’Asia, anche non appartenenti alla NATO – l’obiettivo è quello di difendere la pace e il supporto all’Ucraina, specialmente dopo lo screzio alla Casa Bianca proprio Trump e Zelensky.
Di nuovo il tycoon al centro del ciclone, anche negli ultimi giorni, con i suoi fedelissimi che non hanno fatto una bella figura con tutta quella storia della chat su Signal – una piattaforma di messaggi criptati – creata per condividere in tempo reale informazioni sulle operazioni militari contro obiettivi Houthi in Yemen, e dove si leggevano pareri non proprio all’acqua di rose sul Vecchio Continente. Il tutto poi pubblicato da The Atlantic, dopo che il suo direttore era stato inserito nella chat per errore.
Potremmo riassumere tutta la questione americana con “un bel patatrac”? Probabilmente sì, ma di certo sarebbe riduttivo, specialmente alla luce della complessità della struttura socio-politica americana. Questa non è certo lontana dalle attenzioni degli analisti, ma c’è qualcuno che ha voluto spiegarne pregi e difetti già nell’800, e ciò che scrisse allora è ancora incredibilmente attuale.
Monsieur Alexis de Tocqueville non aveva proprio programmato una vacanza all inclusive in America. Non è che non ci volesse andare, è solo che è stato mandato negli Stati Uniti per lavoro, per conto del governo francese, e ci è poi rimasto per quasi un anno. Il buon Alexis raggiunse il Nuovo Mondo nel 1831, dove si ritrovò ad analizzare le strutture e i processi politici, sociali ed economici americani. Ciò che ne uscì fu uno delle pietre miliari della filosofia politica, intitolato proprio La democrazia in America. Un bel mattone da quasi 800 pagine – note escluse – in cui il nostro autore elogia, sì, la ormai florida democrazia americana per il vivo coinvolgimento dei cittadini, ma non solo. Tocqueville mette a nudo anche i difetti e i rischi del modello Usa, dove, secondo lui, ci sarebbe il rischio concreto di una ‘tirannia dell’opinione comune’. Con questo s’intende un modello sociale dove la maggioranza, guidata da un ristretto gruppo dominante, si fa garante di un certo numero di opinioni e pensieri a cui i cittadini si conformano. E se anche qualche individuo non la pensa proprio così, pazienza: ciò che conta davvero è – appunto – la maggioranza, che conforma così lo Stato per intero.
Ricorda qualcosa? Non è solo la storia di messaggi pubblicati da The Atlantic, ma è l’intera somma delle cose a dare oggi una forma ai dubbi espressi da Tocqueville quasi duecento anni fa. Oggi, quella chat di Signal, così come l’affermazione di dazi permanenti da parte di Trump per riportare l’automotive americano ‘great again’, diventano metafore perfette dei rischi di cui parlava il filosofo: un gruppo ristretto di rappresentanti del potere che conforma un intero Paese. La narrativa del Make America Great Again ha rimischiato le carte in tavola, e se prima si era a favore dei movimenti Woke e contro i dazi, ora è tutto al contrario.
Attenzione, però: se pensavate che questo fosse un episodio pessimistico, vi sbagliate. E non lo diciamo noi, ma sempre lo stesso de Tocqueville! Per lui, la democrazia è un modello di uguaglianza che sgorga in modo naturale nelle società moderne, con tutti i suoi pregi, i suoi difetti, ma soprattutto le sue peculiarità. Perché, avvisa Tocqueville, non possiamo fare paragoni tra l’Europa e l’America: il modello americano non è un esempio a cui fare riferimento sic et simpliciter, quanto, piuttosto, un soggetto con cui interloquire e collaborare, per far sì che entrambe le sponde dell’Atlantico si aiutino a valorizzare i propri pregi e a limitare i propri difetti. Ce la faremo?
Ce la faremo eccome! Anzi, se Tocqueville fosse qui oggi, probabilmente lo direbbe chiaro e tondo... Magari con un post su X o al più un’ospitata in tv. Di certo più comodo di un librone da 800 pagine.
C’è così tanto spazio, che dentro ci ballano ben trentasette numeri, non proprio pochissimi. Eppure, a prendere come riferimento solo il primo e il trentanovesimo elemento dell’elenco, sembra che tutte le altre cifre in mezzo si siano nascoste. Ma dove si sono cacciate? È possibile che passino inosservate proprio sotto i nostri occhi? Forse bisogna cercarle meglio, o quantomeno bisogna sapere dove cercarle.
Quest’ultima frase vale per molte più cose di quante non si creda. Sul serio: vale per le calze, disperse nel cassetto; vale per quello scontrino per fare il reso, che avevamo messo proprio in tasca e ora chissà dov’è; vale per la penna, risucchiata nello zaino; ma vale anche per tutti quei motivi che ci aiutano a essere positivi, anche se tutto attorno a noi sembra suggerire il contrario.
Quando ritroviamo calze, scontrini o penne, siamo felici nell’istante; ma quando invece riusciamo a focalizzarci su degli aspetti che ci permettono di rileggere una situazione sotto un’altra luce, forse, tutto il resto ci sembra prendere una piega differente.
Certo, detto così non basta, e non è facile partire poi subito in quarta con il Sunday View in cui parliamo di dazi e improperi verso l’Europa, ma se ci leggete da un po’ ormai sapete che ci piace chiamare in causa qualcuno che può aiutarci – per l’appunto – proprio a trovare una prospettiva differente delle cose.
Anche perché ci vuole pure un po’ di cara e rassicurante atmosfera domenicale in queste settimane così intense, no? E allora via con il nostro Sunday!
LA QUESTIONE AMERICANA
Certi amori non finiscono mai, si direbbe: fanno dei giri immensi e poi ritornano. Per esempio la grande liaison che c’è tra Trump e i suoi dazi; anzi, tra Trump e la sua America, direbbero i sostenitori del tycoon. In che senso? Nel senso che in questa nuova deluxe edition delle imposte sulle importazioni, parliamo di un bel 25% sulle auto – e sui loro componenti – che non siano prodotte, o anche solo assemblate, su suolo a stelle e strisce. Trump non vuole tanto colpire quelle aziende che hanno spostato la loro produzione fuori dagli Usa – o meglio, non solo –, ma mira a qualcosa di più grande: riportare il grosso della produzione automotive nel suo Paese. Per dirla in un altro modo, “Make America Great Again”.
È un modello vincente? Secondo Bloomberg no, piuttosto un boomerang che non farà altro che impennare i prezzi proprio per gli americani, che già negli ultimi tempi si ritrovano a fare i conti con scontrini del supermercato non proprio amichevoli.
In Europa, nella persona di Ursula von der Leyen, ci si dice profondamente rammaricati che il settore dell’auto – assieme anche a quello farmaceutico e del legname – venga così tassato, andando a colpire in primis lo sviluppo e i consumatori su entrambe le sponde dell’oceano. Tra i banchi dell’Unione, poi, non c’è proprio serenità, visti anche i vari ordini del giorno divisi tra la questione americana e il conflitto in Ucraina. All’interno dei cosiddetti “Volenterosi” – 37 tra Paesi europei, del Commonwealth e dell’Asia, anche non appartenenti alla NATO – l’obiettivo è quello di difendere la pace e il supporto all’Ucraina, specialmente dopo lo screzio alla Casa Bianca proprio Trump e Zelensky.
Di nuovo il tycoon al centro del ciclone, anche negli ultimi giorni, con i suoi fedelissimi che non hanno fatto una bella figura con tutta quella storia della chat su Signal – una piattaforma di messaggi criptati – creata per condividere in tempo reale informazioni sulle operazioni militari contro obiettivi Houthi in Yemen, e dove si leggevano pareri non proprio all’acqua di rose sul Vecchio Continente. Il tutto poi pubblicato da The Atlantic, dopo che il suo direttore era stato inserito nella chat per errore.
Potremmo riassumere tutta la questione americana con “un bel patatrac”? Probabilmente sì, ma di certo sarebbe riduttivo, specialmente alla luce della complessità della struttura socio-politica americana. Questa non è certo lontana dalle attenzioni degli analisti, ma c’è qualcuno che ha voluto spiegarne pregi e difetti già nell’800, e ciò che scrisse allora è ancora incredibilmente attuale.
L’AMERICA VISTA DA FUORI
Monsieur Alexis de Tocqueville non aveva proprio programmato una vacanza all inclusive in America. Non è che non ci volesse andare, è solo che è stato mandato negli Stati Uniti per lavoro, per conto del governo francese, e ci è poi rimasto per quasi un anno. Il buon Alexis raggiunse il Nuovo Mondo nel 1831, dove si ritrovò ad analizzare le strutture e i processi politici, sociali ed economici americani. Ciò che ne uscì fu uno delle pietre miliari della filosofia politica, intitolato proprio La democrazia in America. Un bel mattone da quasi 800 pagine – note escluse – in cui il nostro autore elogia, sì, la ormai florida democrazia americana per il vivo coinvolgimento dei cittadini, ma non solo. Tocqueville mette a nudo anche i difetti e i rischi del modello Usa, dove, secondo lui, ci sarebbe il rischio concreto di una ‘tirannia dell’opinione comune’. Con questo s’intende un modello sociale dove la maggioranza, guidata da un ristretto gruppo dominante, si fa garante di un certo numero di opinioni e pensieri a cui i cittadini si conformano. E se anche qualche individuo non la pensa proprio così, pazienza: ciò che conta davvero è – appunto – la maggioranza, che conforma così lo Stato per intero.
MALE, MA NON MALISSIMO?
Ricorda qualcosa? Non è solo la storia di messaggi pubblicati da The Atlantic, ma è l’intera somma delle cose a dare oggi una forma ai dubbi espressi da Tocqueville quasi duecento anni fa. Oggi, quella chat di Signal, così come l’affermazione di dazi permanenti da parte di Trump per riportare l’automotive americano ‘great again’, diventano metafore perfette dei rischi di cui parlava il filosofo: un gruppo ristretto di rappresentanti del potere che conforma un intero Paese. La narrativa del Make America Great Again ha rimischiato le carte in tavola, e se prima si era a favore dei movimenti Woke e contro i dazi, ora è tutto al contrario.
Attenzione, però: se pensavate che questo fosse un episodio pessimistico, vi sbagliate. E non lo diciamo noi, ma sempre lo stesso de Tocqueville! Per lui, la democrazia è un modello di uguaglianza che sgorga in modo naturale nelle società moderne, con tutti i suoi pregi, i suoi difetti, ma soprattutto le sue peculiarità. Perché, avvisa Tocqueville, non possiamo fare paragoni tra l’Europa e l’America: il modello americano non è un esempio a cui fare riferimento sic et simpliciter, quanto, piuttosto, un soggetto con cui interloquire e collaborare, per far sì che entrambe le sponde dell’Atlantico si aiutino a valorizzare i propri pregi e a limitare i propri difetti. Ce la faremo?
BONUS TRACK
Ce la faremo eccome! Anzi, se Tocqueville fosse qui oggi, probabilmente lo direbbe chiaro e tondo... Magari con un post su X o al più un’ospitata in tv. Di certo più comodo di un librone da 800 pagine.
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