Sunday View
Armi, il caso Italia: l’Europa punta al riarmo, e da noi cresce l’export
Negli ultimi quattro anni il nostro Paese ha aumentato più di tutti l’export di armi: come mai, e quali effetti provoca sul progetto di riarmo europeo?
di Lorenzo Cleopazzo 6 Aprile 2025 10:00

Ci sono argomenti che non è facile trattare. Non è facile scriverne i termini, anche se sono ricorrenti e necessari per il racconto; non è facile ascoltarne gli effetti, anche se ci appaiono così distanti da noi; spesso non è facile parlarne neanche con i propri amici, perché forse non vogliamo che certe cose entrino più di tanto nella nostra quotidianità più spensierata. La guerra è uno dei campi semantici in questione. Uno di quegli argomenti da cui spesso attingiamo a piene mani certi vocaboli, utilizzandoli magari a sproposito, ma innocentemente, salvo poi renderci conto che si poteva fare diversamente. Non ci riferiamo solo alla ‘cannonata’ in porta di un calciatore, o a quel tizio che l’ha ‘sparata’ grossa o a un piatto che è ‘davvero una bomba’: è difficile anche scrivere di guerra, di conflitti, e di armi in quanto tali. Eppure anche questo è un settore che muove l’economia. Anzi, forse uno dei più floridi, specialmente negli ultimissimi tempi. L’economia va avanti, dicevamo, e nelle armi vede un settore come un altro, popolato da aziende e protagonisti che lo animano e muovono il suo rapporto tra domanda e offerta.
In questo momento, in cui il riarmo è il nome e l’obiettivo di un ambizioso progetto europeo, tra gli interpreti del settore ci sono anche molti Paesi, e l’Italia è tra questi. Anzi, è proprio al centro di un caso particolare, che nel Sunday View di questa settimana andiamo ad analizzare.
Pronti? E allora cominciamo!
Stando a quanto emerge dall’ultima analisi dello Stockholm International Peace Research Institute – più comodamente detto SIPRI – nel quadriennio tra il 2020 e il 2024 l’Italia ha registrato un aumento dell’export di armamenti del 138%. Una cifra importante, che ha fatto levitare il nostro Paese dal decimo fino al sesto posto tra i più grandi esportatori al mondo. In questa speciale graduatoria, la prima posizione è occupata – neanche a dirlo – dagli Usa, ovvero lo stesso Paese da cui l’Ue cerca disperatamente di ottenere l’indipendenza proprio sugli armamenti. Il problema di tutta questa vicenda è che se da un lato a Bruxelles si parla tanto di un grande piano di riarmo, dall’altro bisogna ancora capire come e dove reperire le risorse per mettere in atto questo piano. Allo stato attuale, infatti, nonostante notevoli sviluppi nel settore della difesa, l’Europa mostra ancora delle lacune su alcuni approvvigionamenti, che rendono tuttora indispensabili i legami proprio con l’America.
Ma nonostante l’impasse per il piano di riarmo europeo, le buone notizie ci sono: sempre secondo lo studio dello SIPRI, negli ultimi quattro anni l’export delle armi italiane è cresciuto proprio sotto la spinta del riarmo NATO, con le nostre aziende che hanno saputo mettere a frutto i propri sviluppi tecnologici per colmare il gap formatosi dal ritiro della Russia sul piano delle forniture. Numeri alla mano, i principali accordi made in Italy prevederebbero carri armati alla Germania per 20 miliardi ed elicotteri alla Polonia per quasi 2 miliardi di euro. Il grosso delle esportazioni italiane, però, non riguarda il nostro continente, ma il Medioriente, con un 71% di esportazioni suddivise tra Qatar, Kuwait, Arabia Saudita ed Egitto.
Per il futuro, lo SIPRI prevede una domanda crescente di armi che potrebbe vedere il nostro Paese di nuovo in crescita per le forniture del settore. L’Europa e l’Italia scommettono molto su questo punto, sfruttando anche la produzione di tecnologie a doppia utilità, che prevedano, quindi, anche delle implicazioni civili. Il progetto di riarmo europeo è il primo passo in questa direzione, con una volontà di emancipazione dagli Stati Uniti che dimostra una certa insicurezza, ma anche tanta determinazione, sia sul piano economico che militare. Un progetto che mette in luce tutta la volontà dell’Europa di non essere impreparata, o troppo dipendente da fonti esterne, muovendosi in anticipo e – forse – un po’ a sorpresa, proprio come consigliava qualcuno qualche annetto fa.
Di certo avrete sentito parlare di Sun Tzu e del suo “L’arte della guerra”. Quel piccolo libricino è una delle letture consigliate per imprenditori, sportivi e chiunque voglia delle massime per centrare i propri obiettivi, ma, andando al di là di questa sua veste da manuale di self help, l’opera di Sun Tzu ci appare nient’altro che per quello che è: un trattato su come fare la guerra. Dicevamo nell’introduzione che è difficile scrivere di armi e di guerra, ma evidentemente non vale per tutti... Anche se, in fondo, non c’è niente da che stupirsi da un testo scritto da un generale del VI secolo a.C., no?
Fatto sta che in poche pagine sono riassunti alcuni principi basilari dei conflitti che hanno trovato una connotazione pratica in molti eventi storici, ma oggi, che non parliamo di guerra in senso stretto, ci torna utile soprattutto una delle massime di Sun Tzu: in uno scontro, vince chi trova il modo di combattere senza combattere. Nessun confronto diretto, ma preparazione e deterrenza qb per porsi in un vantaggio tale da poter affrontare qualsiasi implicazione. È valso, per esempio, per la campagna di Gallia di Giulio Cesare, dove gli uomini di Vercingetorige tennero in scacco i romani annullando i loro approvvigionamenti e bruciando persino i propri villaggi; ma successe una cosa simile anche durante la campagna di Russia di Napoleone, quando l’esercito dello Zar lasciò che fossero le temperature gelide e le rigidezze dell’inverno a far demordere i francesi. E oggi che succede?
Oggi, per dare retta a quanto scritto da Sun Tzu, dovremmo dare alle fiamme i supermercati o lasciare al freddo la gente? Fortunatamente no, niente di tutto questo. Oggi, che l’unico “conflitto” di cui parliamo è solo una rincorsa alle risorse, l’Europa in cerca di solidità sta facendo quello che Sun Tzu consigliava di fare: adattarsi al momento, preparandolo in anticipo. Il punto, però, è quanto effettivamente siamo ‘in anticipo’. I Paesi dell’Ue pagano una frammentazione fisiologica, che riporta di nuovo alle proposte di una confederazione unica e di un unico esercito. Ma se Bruxelles vuole – come vuole – dare una svolta, allora i passi della to do list sono semplici: da un lato aumentare gli investimenti per la difesa, e dall’altro spingere sullo sviluppo industriale e tecnologico in questo settore.
Da questo punto di vista, l’Italia sembra andare nella direzione migliore per centrare gli obiettivi europei, anche se per competere con l’enorme macchina dell’industria statunitense, occorreranno decenni di sforzi in questo senso. In questo panorama, l'Italia sembra emergere sempre più come protagonista nel settore della difesa, ma il cammino verso l'autonomia europea è ancora lungo e richiederà una visione strategica condivisa per mantenere questa crescita in modo sostenibile.
E se Sun Tzu fosse oggi consulente Ue? Probabilmente consiglierebbe di puntare sull’Italia, anziché bruciare villaggi: più risultati, meno problemi.
In questo momento, in cui il riarmo è il nome e l’obiettivo di un ambizioso progetto europeo, tra gli interpreti del settore ci sono anche molti Paesi, e l’Italia è tra questi. Anzi, è proprio al centro di un caso particolare, che nel Sunday View di questa settimana andiamo ad analizzare.
Pronti? E allora cominciamo!
DOMANDA E OFFERTA
Stando a quanto emerge dall’ultima analisi dello Stockholm International Peace Research Institute – più comodamente detto SIPRI – nel quadriennio tra il 2020 e il 2024 l’Italia ha registrato un aumento dell’export di armamenti del 138%. Una cifra importante, che ha fatto levitare il nostro Paese dal decimo fino al sesto posto tra i più grandi esportatori al mondo. In questa speciale graduatoria, la prima posizione è occupata – neanche a dirlo – dagli Usa, ovvero lo stesso Paese da cui l’Ue cerca disperatamente di ottenere l’indipendenza proprio sugli armamenti. Il problema di tutta questa vicenda è che se da un lato a Bruxelles si parla tanto di un grande piano di riarmo, dall’altro bisogna ancora capire come e dove reperire le risorse per mettere in atto questo piano. Allo stato attuale, infatti, nonostante notevoli sviluppi nel settore della difesa, l’Europa mostra ancora delle lacune su alcuni approvvigionamenti, che rendono tuttora indispensabili i legami proprio con l’America.
Ma nonostante l’impasse per il piano di riarmo europeo, le buone notizie ci sono: sempre secondo lo studio dello SIPRI, negli ultimi quattro anni l’export delle armi italiane è cresciuto proprio sotto la spinta del riarmo NATO, con le nostre aziende che hanno saputo mettere a frutto i propri sviluppi tecnologici per colmare il gap formatosi dal ritiro della Russia sul piano delle forniture. Numeri alla mano, i principali accordi made in Italy prevederebbero carri armati alla Germania per 20 miliardi ed elicotteri alla Polonia per quasi 2 miliardi di euro. Il grosso delle esportazioni italiane, però, non riguarda il nostro continente, ma il Medioriente, con un 71% di esportazioni suddivise tra Qatar, Kuwait, Arabia Saudita ed Egitto.
Per il futuro, lo SIPRI prevede una domanda crescente di armi che potrebbe vedere il nostro Paese di nuovo in crescita per le forniture del settore. L’Europa e l’Italia scommettono molto su questo punto, sfruttando anche la produzione di tecnologie a doppia utilità, che prevedano, quindi, anche delle implicazioni civili. Il progetto di riarmo europeo è il primo passo in questa direzione, con una volontà di emancipazione dagli Stati Uniti che dimostra una certa insicurezza, ma anche tanta determinazione, sia sul piano economico che militare. Un progetto che mette in luce tutta la volontà dell’Europa di non essere impreparata, o troppo dipendente da fonti esterne, muovendosi in anticipo e – forse – un po’ a sorpresa, proprio come consigliava qualcuno qualche annetto fa.
L’ARTE DELLA NON-GUERRA
Di certo avrete sentito parlare di Sun Tzu e del suo “L’arte della guerra”. Quel piccolo libricino è una delle letture consigliate per imprenditori, sportivi e chiunque voglia delle massime per centrare i propri obiettivi, ma, andando al di là di questa sua veste da manuale di self help, l’opera di Sun Tzu ci appare nient’altro che per quello che è: un trattato su come fare la guerra. Dicevamo nell’introduzione che è difficile scrivere di armi e di guerra, ma evidentemente non vale per tutti... Anche se, in fondo, non c’è niente da che stupirsi da un testo scritto da un generale del VI secolo a.C., no?
Fatto sta che in poche pagine sono riassunti alcuni principi basilari dei conflitti che hanno trovato una connotazione pratica in molti eventi storici, ma oggi, che non parliamo di guerra in senso stretto, ci torna utile soprattutto una delle massime di Sun Tzu: in uno scontro, vince chi trova il modo di combattere senza combattere. Nessun confronto diretto, ma preparazione e deterrenza qb per porsi in un vantaggio tale da poter affrontare qualsiasi implicazione. È valso, per esempio, per la campagna di Gallia di Giulio Cesare, dove gli uomini di Vercingetorige tennero in scacco i romani annullando i loro approvvigionamenti e bruciando persino i propri villaggi; ma successe una cosa simile anche durante la campagna di Russia di Napoleone, quando l’esercito dello Zar lasciò che fossero le temperature gelide e le rigidezze dell’inverno a far demordere i francesi. E oggi che succede?
UN’UNIONE DI INTENTI, FORSE
Oggi, per dare retta a quanto scritto da Sun Tzu, dovremmo dare alle fiamme i supermercati o lasciare al freddo la gente? Fortunatamente no, niente di tutto questo. Oggi, che l’unico “conflitto” di cui parliamo è solo una rincorsa alle risorse, l’Europa in cerca di solidità sta facendo quello che Sun Tzu consigliava di fare: adattarsi al momento, preparandolo in anticipo. Il punto, però, è quanto effettivamente siamo ‘in anticipo’. I Paesi dell’Ue pagano una frammentazione fisiologica, che riporta di nuovo alle proposte di una confederazione unica e di un unico esercito. Ma se Bruxelles vuole – come vuole – dare una svolta, allora i passi della to do list sono semplici: da un lato aumentare gli investimenti per la difesa, e dall’altro spingere sullo sviluppo industriale e tecnologico in questo settore.
Da questo punto di vista, l’Italia sembra andare nella direzione migliore per centrare gli obiettivi europei, anche se per competere con l’enorme macchina dell’industria statunitense, occorreranno decenni di sforzi in questo senso. In questo panorama, l'Italia sembra emergere sempre più come protagonista nel settore della difesa, ma il cammino verso l'autonomia europea è ancora lungo e richiederà una visione strategica condivisa per mantenere questa crescita in modo sostenibile.
BONUS TRACK
E se Sun Tzu fosse oggi consulente Ue? Probabilmente consiglierebbe di puntare sull’Italia, anziché bruciare villaggi: più risultati, meno problemi.
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