Weekly Bulletin
Mercati volatili: la velocità fa la differenza, evitare le corse perse in partenza
La combinazione di algoritmi e IA imprime accelerazioni mai viste prima. Sono temporanee ma il rischio è restarci incastrati. La forza del mercato Usa dei capitali non è in discussione
di Stefano Caratelli 22 Aprile 2025 08:22

Da quando Trump ha spedito i mercati sulle montagne russe sventolando la tabellina dei dazi si sono sprecati i confronti con le turbolenze degli ultimi anni, da quella targata Lehman al Covid, fino alla crisi delle banche regionali USA. Buoni per fare titoloni, ma poco adatti a spiegare cosa è successo e magari continua a succedere nelle prossime settimane. Somiglia forse di più al cortocircuito che scatenò il Black Monday del 1987, quando per la prima volta gli scambi computerizzati presero la scena facendo perdere in una sola seduta quasi un quarto del valore al Dow Jones, con effetti a cascata in tutto il mondo. Allora il meccanismo era abbastanza “primitivo”, si impostavano gli ordini di vendita automatici sulle stop loss, livelli a cui vendere per limitare le perdite, che invece si moltiplicavano in assenza di paracadute. Lo introdusse la Sec su invito di Ronald Reagan con i “curbs”, ancora in vigore, che sospendono temporaneamente le transazioni quando si sfondano certe soglie. Ma oggi, con il robo-trading guidato dall’IA, i curbs non fanno in tempo a scattare perché intanto in un nano secondo indici e titoli hanno già preso la direzione opposta.
Anche nel 1987 come oggi i catastrofisti si scatenarono evocando un nuovo 1929 causato dalle politiche ultra liberiste di Reagan, ma nel giro di un semestre Wall Street recuperò tutto e il Black Monday non impedì a Bush Senior di vincere alla grande contro il Dem Dukakis a novembre del 1988, succedendo a un Reagan non rieleggibile una terza volta. La novità è la velocità degli algoritmi guidati dall’IA che spedisce da un giorno all’altro l’S&P 500 in calo a due cifre e poche ore dopo in rimbalzo di altrettanto, con oscillazioni ancora più violente per le mega cap, come Tesla, partita da 240 dollari il giorno prima delle presidenziali per poi schizzare a 450 sull’onda del Trump trade nella percezione che le avesse vinte direttamente Musk, per poi tornare esattamente al punto di partenza.
Le grandi case d’investimento non hanno abbandonato la convinzione sui mega trend secolari a cui sono rimaste fedeli, ma si sono limitate ad aggiustamenti protettivi, come BlackRock, che ha allungato l’orizzonte tattico dai tradizionali 3 mesi a 6-12 mesi. Anche la narrazione sulla grande fuga dagli Usa, dal dollaro e dai Treasury oltre che da Wall Street, in cerca di alternative mentre Trump spinge il mondo sull’orlo dell’abisso. Un dollaro a 1,15 su euro e rendimenti dei Treasury tornati al 4,3% non sembrano sirene di allarme. UBS ad esempio vede maggior potenziale nell’azionario USA e addirittura rendimenti dei Treasury che potrebbero scendere al 2,5% se davanti al PIL USA dovesse spuntare il segno meno. Anche una recessione tecnica non sarebbe la fine del mondo, riallineerebbe le politiche della Casa Bianca a quella della Fed e potrebbe far partire una ripresa meno drogata di quelle seguite al Covid.
Il mercato dei capitali americano resta fondamentale per l’economia globale, con un valore di oltre il 20% superiore a quello del PIL del pianeta, forte di 120.000 miliardi di dollari tra azionario, obbligazionario, monetario e credito. Gli investimenti sono costretti ad andare, o almeno a passare per gli USA, mentre per la grande rivale Cina la situazione è agli antipodi: gli investimenti diretti esteri non arrivano a 100 miliardi di dollari, l’anno scorso sono crollati del 27% e nel solo primo trimestre del 2025 sono caduti di un altro 10,8%, secondo i dati dello stesso ministero del Commercio di Pechino riportati da Trading Economics. Per dare un’idea della distanza con l’altra superpotenza, quelli diretti in USA viaggiano sui 5.400 miliardi di dollari l’anno, ma ne corrispondono circa mille miliardi in più nella direzione opposta (forse Trump non ha tutti i torti).
Bottom line. Nella navigazione della volatilità superveloce, chi ha provato a battere gli algoritmi si è fatto probabilmente male, e chi si è tenuto a distanza di sicurezza ha come minimo limitato i danni. Potrebbe andare avanti così per un po’, fino all’estate, per poi iniziare a delinearsi la nuova normalità, su cui prendere le misure per strutturare portafogli di lungo termine. Per ora sembra saggio continuare a tenersi al largo per evitare di finire sugli scogli.
LE MEGA CAP HANNO SOFFERTO DI PIÙ
Anche nel 1987 come oggi i catastrofisti si scatenarono evocando un nuovo 1929 causato dalle politiche ultra liberiste di Reagan, ma nel giro di un semestre Wall Street recuperò tutto e il Black Monday non impedì a Bush Senior di vincere alla grande contro il Dem Dukakis a novembre del 1988, succedendo a un Reagan non rieleggibile una terza volta. La novità è la velocità degli algoritmi guidati dall’IA che spedisce da un giorno all’altro l’S&P 500 in calo a due cifre e poche ore dopo in rimbalzo di altrettanto, con oscillazioni ancora più violente per le mega cap, come Tesla, partita da 240 dollari il giorno prima delle presidenziali per poi schizzare a 450 sull’onda del Trump trade nella percezione che le avesse vinte direttamente Musk, per poi tornare esattamente al punto di partenza.
LA VISTA LUNGA DELLE GRANDI CASE D’INVESTIMENTO
Le grandi case d’investimento non hanno abbandonato la convinzione sui mega trend secolari a cui sono rimaste fedeli, ma si sono limitate ad aggiustamenti protettivi, come BlackRock, che ha allungato l’orizzonte tattico dai tradizionali 3 mesi a 6-12 mesi. Anche la narrazione sulla grande fuga dagli Usa, dal dollaro e dai Treasury oltre che da Wall Street, in cerca di alternative mentre Trump spinge il mondo sull’orlo dell’abisso. Un dollaro a 1,15 su euro e rendimenti dei Treasury tornati al 4,3% non sembrano sirene di allarme. UBS ad esempio vede maggior potenziale nell’azionario USA e addirittura rendimenti dei Treasury che potrebbero scendere al 2,5% se davanti al PIL USA dovesse spuntare il segno meno. Anche una recessione tecnica non sarebbe la fine del mondo, riallineerebbe le politiche della Casa Bianca a quella della Fed e potrebbe far partire una ripresa meno drogata di quelle seguite al Covid.
IL MERCATO AMERICANO DEI CAPITALI CONTINUA A DETTAR LEGGE
Il mercato dei capitali americano resta fondamentale per l’economia globale, con un valore di oltre il 20% superiore a quello del PIL del pianeta, forte di 120.000 miliardi di dollari tra azionario, obbligazionario, monetario e credito. Gli investimenti sono costretti ad andare, o almeno a passare per gli USA, mentre per la grande rivale Cina la situazione è agli antipodi: gli investimenti diretti esteri non arrivano a 100 miliardi di dollari, l’anno scorso sono crollati del 27% e nel solo primo trimestre del 2025 sono caduti di un altro 10,8%, secondo i dati dello stesso ministero del Commercio di Pechino riportati da Trading Economics. Per dare un’idea della distanza con l’altra superpotenza, quelli diretti in USA viaggiano sui 5.400 miliardi di dollari l’anno, ma ne corrispondono circa mille miliardi in più nella direzione opposta (forse Trump non ha tutti i torti).
Bottom line. Nella navigazione della volatilità superveloce, chi ha provato a battere gli algoritmi si è fatto probabilmente male, e chi si è tenuto a distanza di sicurezza ha come minimo limitato i danni. Potrebbe andare avanti così per un po’, fino all’estate, per poi iniziare a delinearsi la nuova normalità, su cui prendere le misure per strutturare portafogli di lungo termine. Per ora sembra saggio continuare a tenersi al largo per evitare di finire sugli scogli.
Trending