I rischi
Accordi circolari e leva: così si gonfia la bolla dell’intelligenza artificiale
Big Tech che si finanziano a vicenda, investimenti anticipati per centinaia di miliardi e una domanda reale ancora tutta da dimostrare. Il mercato esulta ma il rischio è concreto
di Stefano Silvestri 27 Ottobre 2025 15:14
“Le probabilità che il boom dell’intelligenza artificiale si trasformi in un crollo sono molto alte, perché ci sono aziende che spendono trilioni di dollari e competono tutte per lo stesso mercato, che però non esiste ancora”. A lanciare l’allarme è Simon Edelsten, CIO di Goshawk Asset Management, veterano delle IPO telco. Il parallelo è chiaro: l'IA mostra una grande accelerazione quando si parla dell’offerta, ma anche una certa incertezza sulla domanda finale. Restituendo la sensazione che la finanza stia spingendo più dell’effettiva capacità di monetizzazione.
L’adozione dell’intelligenza artificiale a livello enterprise richiede di guardare al lungo periodo (integrazione, governance, sicurezza), mentre sul lato consumer c’è maggiore velocità. Ma la disponibilità a pagare resta al momento limitata: un’indagine condotta da Menlo Ventures insieme a Morning Consult su un campione rappresentativo di oltre 5mila adulti negli Stati Uniti (aprile 2025) mostra che, sebbene il 61% degli americani dica di aver usato l’IA negli ultimi sei mesi, solo il 3% degli utenti ha messo mano al portafoglio per sottoscrivere un abbonamento. Ne nasce un divario tra entusiasmo e ricavi effettivi che alimenta una dissonanza sempre più evidente: listini ai massimi storici trainati da poche mega-cap dell’IA, laddove l’economia reale invia segnali più freddi su lavoro, immobiliare e salari. Il vecchio adagio secondo cui “la Borsa non è l’economia” torna così d’attualità, con la finanza dell’IA che oggi conta quanto, se non più, della realtà. Secondo alcune stime, in alcuni degli ultimi trimestri l’impulso degli investimenti legati all’IA avrebbe pesato sulla crescita più dei consumi, segno che la spinta arriva più dai capex delle Big Tech che dalla domanda finale.
Nell’IA si sta sempre più affermando il finanziamento circolare: Big Tech come Nvidia, Microsoft, Amazon e Meta investono sia nei nuovi provider cloud (le cosiddette neocloud come CoreWeave o Nebius), sia nei laboratori di modelli (OpenAI, Anthropic). Con quei capitali, le neocloud ampliano i data center e comprano GPU e servizi dai medesimi sponsor, mentre i model labs acquistano capacità di calcolo (compute) sugli stessi Azure/AWS/Google Cloud/Oracle. E, ovviamente, chip Nvidia. Axios parla addirittura di “nuova normalità”: il denaro entra e rientra nello stesso perimetro, sfumando il confine tra crescita da domanda esterna e crescita alimentata dalla finanza interna. Max Kettner (HSBC) invita alla calma (“anche Walmart investe nei fornitori che allo stesso tempo sono suoi clienti”), altri invece notano che lo schema espone soprattutto i player minori, che costruiscono data center a ritmi record senza la certezza di flussi di cassa proporzionati.
Per capire come funziona questo circuito circolare, basta un esempio. OpenAI ha appena siglato con Oracle un’intesa da circa 300 miliardi di dollari in cinque anni che impone una spesa anticipata per data center, energia e soprattutto GPU; per Larry Ellison gli incassi arriveranno solo con l’utilizzo da parte di OpenAI. In pratica, Oracle deve anticipare capex enormi e, in larga parte, finanziarli a debito: KeyBanc stima circa 25 miliardi l’anno per quattro anni, ma l’azienda vanta già 82 miliardi di debito a lungo termine e un rapporto debito/capitale vicino al 450%. Tempi di cantiere lunghi, colli di bottiglia su energia e permessi, volatilità dei costi hardware e concentrazione su un solo cliente, aumentano l’esposizione. Certo, alcune clausole aiutano (milestone di spesa legate all’uso, riallocazione della capacità ad altri clienti), ma non cancellano il punto: l’accordo è sì un volano per l’ecosistema ma anche una scommessa di bilancio di dimensioni inedite.
Quello di Oracle non è l’unico esempio di circolarità degli investimenti. Prendiamo CoreWeave: Meta ha messo sul tavolo 14,2 miliardi di dollari per garantirsi potenza di calcolo fino al 2031 (con la possibilità di estendere l’accordo al 2032) e con essa l’accesso alle nuove GPU di Nvidia, le GB300 costruite sulla generazione Blackwell Ultra. Se una parte della capacità di CoreWeave restasse inutilizzata, entrerebbe in gioco la stessa Nvidia: il chipmaker si è infatti impegnato ad assorbirne fino a un equivalente di 6,3 miliardi. In pratica, fa da paracadute, garantendo a CoreWeave un livello minimo di ricavi anche se Meta non utilizzasse tutta la potenza acquistata. Il risultato è un recinto chiuso in cui Nvidia produce i chip e fa da paracadute sui ricavi, Meta acquista la capacità e CoreWeave la fornisce: tutti operano dentro lo stesso ecosistema. Il cerchio s’allarga con altri accordi “soldi più fornitura”. Nvidia investe in OpenAI mentre le vende i chip; Amazon mette fino a 4 miliardi su Anthropic che, in cambio, usa AWS/Bedrock e i processori Trainium/Inferentia; Google fa lo stesso con Anthropic su Google Cloud e TPU; Microsoft, infine, resta il partner storico di OpenAI su Azure e, per tenere il passo, coinvolge fornitori esterni come Oracle. Siamo allora di fronte a un ecosistema circolare in cui capitale, ordini e infrastruttura girano tra pochi attori. È un turbo formidabile finché la domanda reale tiene il ritmo. Quando rallenterà (e prima o poi accadrà), emergeranno tutte le fragilità intrinseche.
Accanto alla circolarità, c’è anche la questione della leva finanziaria. All’inizio dell’ondata dell’intelligenza artificiale, a spendere erano soprattutto le Big Tech già profittevoli. Parliamo di utili generati da pubblicità (Meta, Google), cloud (Microsoft, Amazon), o software. Usavano soldi loro e l’intelligenza artificiale era finanziata prevalentemente da capitale interno. Da qualche tempo invece i numeri sono diventati talmente grandi da superare anche la capacità di autofinanziamento di Big Tech. Per costruire data center IA da centinaia di miliardi servono contanti immediati, e quindi entra in gioco la leva finanziaria. L’accordo OpenAI–Oracle è il caso simbolo, ma la dinamica non riguarda solo i big storici. CoreWeave, per esempio, ha chiuso con Blackstone e Magnetar Capital finanziamenti a debito nell’ordine dei 7,5 miliardi di dollari per accelerare l’espansione dei data center: capitale anticipato oggi per sostenere contratti pluriennali domani. Nebius ha firmato con Microsoft un accordo iniziale da 17,4 miliardi, estendibile a 19,4, spiegando che la crescita verrà finanziata con cassa e debito garantito dal contratto. La leva si vede anche nella filiera “immobiliare”: il consorzio guidato da BlackRock/GIP, con Nvidia e Microsoft coinvolte, ha rilevato Aligned Data Centers per 40 miliardi (fino a 100 miliardi considerando la componente di debito). Sullo sfondo, ecco una stima che dà la misura della scala: secondo varie proiezioni, la spesa addizionale globale per data center legati all’IA potrebbe sfiorare i 2,9 trilioni entro il 2028, tra chip/server e real estate. La parte che non verrà coperta dagli utili, inevitabilmente, la coprirà la leva.
A fronte di valutazioni ipertrofiche (Nvidia è valutata sopra i 4mila miliardi), Reuters fotografa un ritorno a tattiche “fine anni ’90”. C’è chi preferisce alleggerire i nomi parabolici e cavalcare le prossime vincitrici (software, robotica, tecnologia asiatica). Altri preferiscono puntare su proxy energetici come l’uranio per beneficiare della domanda elettrica dei data center. “Quando qualcuno trova l’oro, conviene comprare il negozio di ferramenta dove i cercatori comprano le loro pale”, ricorda non a caso Edelsten. C’è però un monito, col quale vogliamo chiudere questo articolo. OpenAI, l’azienda simbolo della corsa all’IA, al momento genera ricavi nell’ordine dei 12 miliardi di dollari l’anno ma ne brucia molti di più e prevede di non essere profittevole prima del 2029. Secondo D.A. Davidson, per giustificare gli impegni presi con i fornitori di infrastruttura, contratti che valgono complessivamente centinaia di miliardi di dollari, OpenAI dovrebbe arrivare a un fatturato annuo tra i 200 e i 300 miliardi di dollari entro il 2030. È un salto di quasi venti volte rispetto a oggi. È questo il vero punto di fragilità del sistema: la finanza dell’IA sta ragionando come se quei ricavi fosse garantiti e sta costruendo data center, reti e capacità elettrica sulla base di quella promessa futura. Ma oggi essa ne vale solamente 12 miliardi e se la curva rallenterà, lo stesso accadrà a tutto l’ecosistema che l’ha finanziata.
LA BOLLA FINANZIARIA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE
L’adozione dell’intelligenza artificiale a livello enterprise richiede di guardare al lungo periodo (integrazione, governance, sicurezza), mentre sul lato consumer c’è maggiore velocità. Ma la disponibilità a pagare resta al momento limitata: un’indagine condotta da Menlo Ventures insieme a Morning Consult su un campione rappresentativo di oltre 5mila adulti negli Stati Uniti (aprile 2025) mostra che, sebbene il 61% degli americani dica di aver usato l’IA negli ultimi sei mesi, solo il 3% degli utenti ha messo mano al portafoglio per sottoscrivere un abbonamento. Ne nasce un divario tra entusiasmo e ricavi effettivi che alimenta una dissonanza sempre più evidente: listini ai massimi storici trainati da poche mega-cap dell’IA, laddove l’economia reale invia segnali più freddi su lavoro, immobiliare e salari. Il vecchio adagio secondo cui “la Borsa non è l’economia” torna così d’attualità, con la finanza dell’IA che oggi conta quanto, se non più, della realtà. Secondo alcune stime, in alcuni degli ultimi trimestri l’impulso degli investimenti legati all’IA avrebbe pesato sulla crescita più dei consumi, segno che la spinta arriva più dai capex delle Big Tech che dalla domanda finale.
LA CIRCOLARITÀ DEGLI INVESTIMENTI
Nell’IA si sta sempre più affermando il finanziamento circolare: Big Tech come Nvidia, Microsoft, Amazon e Meta investono sia nei nuovi provider cloud (le cosiddette neocloud come CoreWeave o Nebius), sia nei laboratori di modelli (OpenAI, Anthropic). Con quei capitali, le neocloud ampliano i data center e comprano GPU e servizi dai medesimi sponsor, mentre i model labs acquistano capacità di calcolo (compute) sugli stessi Azure/AWS/Google Cloud/Oracle. E, ovviamente, chip Nvidia. Axios parla addirittura di “nuova normalità”: il denaro entra e rientra nello stesso perimetro, sfumando il confine tra crescita da domanda esterna e crescita alimentata dalla finanza interna. Max Kettner (HSBC) invita alla calma (“anche Walmart investe nei fornitori che allo stesso tempo sono suoi clienti”), altri invece notano che lo schema espone soprattutto i player minori, che costruiscono data center a ritmi record senza la certezza di flussi di cassa proporzionati.
IL CASO PIÙ ECLATANTE: ORACLE
Per capire come funziona questo circuito circolare, basta un esempio. OpenAI ha appena siglato con Oracle un’intesa da circa 300 miliardi di dollari in cinque anni che impone una spesa anticipata per data center, energia e soprattutto GPU; per Larry Ellison gli incassi arriveranno solo con l’utilizzo da parte di OpenAI. In pratica, Oracle deve anticipare capex enormi e, in larga parte, finanziarli a debito: KeyBanc stima circa 25 miliardi l’anno per quattro anni, ma l’azienda vanta già 82 miliardi di debito a lungo termine e un rapporto debito/capitale vicino al 450%. Tempi di cantiere lunghi, colli di bottiglia su energia e permessi, volatilità dei costi hardware e concentrazione su un solo cliente, aumentano l’esposizione. Certo, alcune clausole aiutano (milestone di spesa legate all’uso, riallocazione della capacità ad altri clienti), ma non cancellano il punto: l’accordo è sì un volano per l’ecosistema ma anche una scommessa di bilancio di dimensioni inedite.
BIG TECH, RELAZIONI TRA CONSANGUINEI
Quello di Oracle non è l’unico esempio di circolarità degli investimenti. Prendiamo CoreWeave: Meta ha messo sul tavolo 14,2 miliardi di dollari per garantirsi potenza di calcolo fino al 2031 (con la possibilità di estendere l’accordo al 2032) e con essa l’accesso alle nuove GPU di Nvidia, le GB300 costruite sulla generazione Blackwell Ultra. Se una parte della capacità di CoreWeave restasse inutilizzata, entrerebbe in gioco la stessa Nvidia: il chipmaker si è infatti impegnato ad assorbirne fino a un equivalente di 6,3 miliardi. In pratica, fa da paracadute, garantendo a CoreWeave un livello minimo di ricavi anche se Meta non utilizzasse tutta la potenza acquistata. Il risultato è un recinto chiuso in cui Nvidia produce i chip e fa da paracadute sui ricavi, Meta acquista la capacità e CoreWeave la fornisce: tutti operano dentro lo stesso ecosistema. Il cerchio s’allarga con altri accordi “soldi più fornitura”. Nvidia investe in OpenAI mentre le vende i chip; Amazon mette fino a 4 miliardi su Anthropic che, in cambio, usa AWS/Bedrock e i processori Trainium/Inferentia; Google fa lo stesso con Anthropic su Google Cloud e TPU; Microsoft, infine, resta il partner storico di OpenAI su Azure e, per tenere il passo, coinvolge fornitori esterni come Oracle. Siamo allora di fronte a un ecosistema circolare in cui capitale, ordini e infrastruttura girano tra pochi attori. È un turbo formidabile finché la domanda reale tiene il ritmo. Quando rallenterà (e prima o poi accadrà), emergeranno tutte le fragilità intrinseche.
E IN PIÙ C’È LA LEVA FINANZIARIA
Accanto alla circolarità, c’è anche la questione della leva finanziaria. All’inizio dell’ondata dell’intelligenza artificiale, a spendere erano soprattutto le Big Tech già profittevoli. Parliamo di utili generati da pubblicità (Meta, Google), cloud (Microsoft, Amazon), o software. Usavano soldi loro e l’intelligenza artificiale era finanziata prevalentemente da capitale interno. Da qualche tempo invece i numeri sono diventati talmente grandi da superare anche la capacità di autofinanziamento di Big Tech. Per costruire data center IA da centinaia di miliardi servono contanti immediati, e quindi entra in gioco la leva finanziaria. L’accordo OpenAI–Oracle è il caso simbolo, ma la dinamica non riguarda solo i big storici. CoreWeave, per esempio, ha chiuso con Blackstone e Magnetar Capital finanziamenti a debito nell’ordine dei 7,5 miliardi di dollari per accelerare l’espansione dei data center: capitale anticipato oggi per sostenere contratti pluriennali domani. Nebius ha firmato con Microsoft un accordo iniziale da 17,4 miliardi, estendibile a 19,4, spiegando che la crescita verrà finanziata con cassa e debito garantito dal contratto. La leva si vede anche nella filiera “immobiliare”: il consorzio guidato da BlackRock/GIP, con Nvidia e Microsoft coinvolte, ha rilevato Aligned Data Centers per 40 miliardi (fino a 100 miliardi considerando la componente di debito). Sullo sfondo, ecco una stima che dà la misura della scala: secondo varie proiezioni, la spesa addizionale globale per data center legati all’IA potrebbe sfiorare i 2,9 trilioni entro il 2028, tra chip/server e real estate. La parte che non verrà coperta dagli utili, inevitabilmente, la coprirà la leva.
RISCHI E MISURA DELLA BOLLA
A fronte di valutazioni ipertrofiche (Nvidia è valutata sopra i 4mila miliardi), Reuters fotografa un ritorno a tattiche “fine anni ’90”. C’è chi preferisce alleggerire i nomi parabolici e cavalcare le prossime vincitrici (software, robotica, tecnologia asiatica). Altri preferiscono puntare su proxy energetici come l’uranio per beneficiare della domanda elettrica dei data center. “Quando qualcuno trova l’oro, conviene comprare il negozio di ferramenta dove i cercatori comprano le loro pale”, ricorda non a caso Edelsten. C’è però un monito, col quale vogliamo chiudere questo articolo. OpenAI, l’azienda simbolo della corsa all’IA, al momento genera ricavi nell’ordine dei 12 miliardi di dollari l’anno ma ne brucia molti di più e prevede di non essere profittevole prima del 2029. Secondo D.A. Davidson, per giustificare gli impegni presi con i fornitori di infrastruttura, contratti che valgono complessivamente centinaia di miliardi di dollari, OpenAI dovrebbe arrivare a un fatturato annuo tra i 200 e i 300 miliardi di dollari entro il 2030. È un salto di quasi venti volte rispetto a oggi. È questo il vero punto di fragilità del sistema: la finanza dell’IA sta ragionando come se quei ricavi fosse garantiti e sta costruendo data center, reti e capacità elettrica sulla base di quella promessa futura. Ma oggi essa ne vale solamente 12 miliardi e se la curva rallenterà, lo stesso accadrà a tutto l’ecosistema che l’ha finanziata.
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